venerdì 26 giugno 2009

Tifo

E' interista per tradizione di famiglia: "Sono stato tirato su a pane e Inter", spiega. Però vive a Bergamo, non a Milano. Che c'entra l'Inter con Bergamo? Del resto non gli importa più di tanto, perché regolarmente va allo stadio per seguire la sua squadra, quando gioca in casa, e se appena ne ha la possibilità la segue anche in trasferta. Legge regolarmente la Gazzetta e si trova con gli amici al bar per commentare le partite. E' una passione irrefrenabile, la sua. Perché?

"Tu non puoi capire, Shevek", è l'immancabile risposta di ogni tifoso, e poco importa se dell'Inter o del Milan, della Fiorentina o della Juventus. Questo è il tifo: nella migliore delle ipotesi si manifesta con un blando interesse per le prodezze della squadra del cuore e nella peggiore sconfina nell'idolatria con gli altarini e i santini dei calciatori.

Eppure a me sembra tutto un po' assurdo. Per quale motivo dovrei appassionarmi alle prodezze di questa squadra piuttosto che a quelle di un'altra?

Prima possibilità: è la mia squadra, cioè io ne sono il proprietario. Allora non si discute: è il mio giocattolo privato e lo faccio incontrare con i giocattoli di altri ricchi proprietari come me. E' il caso dei Berlusconi e degli Agnelli. Però decisamente non è questa la mia situazione. Né è quella della miriade di tifosi sbavanti ogni domenica negli stadi o davanti alla televisione.

O forse dovrei appassionarmi alle vicende di questa squadra perché è la squadra della mia città? Mi sembra comunque bizzarro. Che ci sia nato o che ci sia arrivato dopo, io abito qui per puro caso. Perché dovrei privilegiare proprio questa squadra? D'altronde spesso i calciatori e l'allenatore e i dirigenti con la mia città non c'entrano nulla: è quasi tutta gente venuta da lontano. Magari neppure spiccicano una parola di italiano. Sono solo mercenari. Sicché oggi il grande campione è il beniamino della tifoseria, e domani, cambiata città e casacca, diventerà il nemico al quale sputare addosso. E poi... il legame residenziale significa forse che se mi trasferissi dovrei cambiare squadra del cuore? Chi lascia Milano per Firenze deve abbandonare anche il Milan o l'Inter per consacrarsi alla Fiorentina? "Sei matto? La squadra del cuore è quella, e quella deve rimanere!", si inalberano i tifosi. Del resto, se davvero il tifo dipendesse dalla città di residenza, non si spiegherebbero i tifosi juventini a Milano o quelli romanisti a Firenze.

Magari il tifo si trasmette di padre in figlio. "Siamo di famiglia laziale", chiariscono alcuni. Così come si è cattolici o comunisti per educazione: perché si sono ricevuti e assimilati quei valori e quella Weltanschauung dalla famiglia o dalla società. Strano paragone, però. Le convinzioni religiose, filosofiche e politiche hanno un fondamento razionale, possono essere giustificate con un'argomentazione dialettica. Possono quindi essere condivise e trasmesse, se la loro presentazione è convincente. Ma s'è mai visto un tifoso convincere un altro a cambiare squadra? Perfino il gusto artistico può essere giustificato, almeno in parte, in maniera razionale: chi ama Bach e Caravaggio sa anche spiegare perché trova quella musica e quella pittura "belle". Ma come può una squadra essere apprezzata per motivi estetici? Non certo perché gioca meglio delle altre. Tant'è vero che i tifosi non esitano a criticare senza pietà la propria beniamina quando fa schifo sul campo.

E allora? Allora non c'è uno straccio di motivo razionale per il tifo sportivo. Non la residenza in una città, non la composizione della squadra e neppure la qualità del gioco. Il tifo è un'attività umana banalmente assurda.

Non capisco. Per quest'assurdità ci sono esseri umani che soffrono, piangono e si disperano, si riducono sul lastrico, scendono in piazza, minacciano sommosse, si ammazzano l'un l'altro, perfino. Perché?

Shevek

(mirrorato su Tumblr)

sabato 20 giugno 2009

Giustizia?

La bambina è stata rapita e uccisa. L'assassino è stato catturato ed è reo confesso. Inizia il processo. E' vasta la copertura mediatica. Fuori dal tribunale i giornalisti avvicinano i genitori della piccola vittima. Un commento davanti alle telecamere: "Giustizia! Vogliamo giustizia!", gridano. Se la condanna non sarà abbastanza severa ai loro occhi, li sentiremo urlare anche di più per la "giustizia negata".

Giustizia? Che cos'è la giustizia? Ovvero: perché un assassino deve andare in galera o, in alcuni Paesi, essere ucciso? Facciamo un passo indietro.

Un passo mooolto lungo. Fino nella Preistoria. Una bambina viene rapita e uccisa. I genitori e gli zii e alcuni membri del suo clan catturano l'assassino e lo linciano. Fine della storia. E' giustizia questa? No, mi dicono. E' vendetta. Che non è una bella cosa, pare. Anzitutto è sempre lasciata all'arbitrio del singolo, che può imporre una punizione sproporzionata. Magari la morte per il furto di una mela. E poi la vendetta è irrazionale: la bambina viene forse risuscitata dalla morte del proprio assassino? No di certo. La vendetta risponde solo a una pulsione primordiale e irrazionale degli essere umani. Se il colpevole la passa liscia, chi ha subito il torto in qualche modo percepisce un rimescolamento interiore delle budella. Lui la chiama "sensazione di ingiustizia". Ma di razionale non c'è nulla.

Un bel salto temporale e arriviamo a Hammurabi, creatore nel XVIII secolo a.C. del primo codice di diritto penale, civile e commerciale. Equo, per la verità, anche se oggi lo si ricorda come "legge del taglione". Certo migliore dell'arbitrio della vendetta personale. La prima, elementare e rozza ma efficace legge. Oggi si avrebbe qualche difficoltà nel riconoscere la correttezza di quei processi, ma un embrione di giustizia c'è.

Ultimo salto temporale: quasi 40 secoli. Oggi. Il tribunale nel quale si decide il destino dell'assassino delle bambina. Si applicano codici ponderosi e complessi. Lo scopo è sempre lo stesso: applicare la giustizia. Alla fine l'assassino subirà una pena. Magari il carcere. Nei Paesi più incivili la morte. Perché?

La pena ha un senso. Questo lo capisco.

Anzitutto la società deve difendere sé stessa. Siccome è pericoloso lasciare a piede libero un individuo potenzialmente ancora dannoso, è necessario renderlo innocuo. Magari rinchiudendolo in un edificio, la prigione, dove sia controllato e reso incapace di danneggiare gli altri. Meglio ancora (per "ragioni umanitarie", mi dicono) se il colpevole fosse non solo messo in condizione di non offendere più, ma anche recuperato e reinserito nel corpo sociale.

Inoltre c'è il fattore della deterrenza. Non ci si può aspettare che tutti i membri della società aderiscano ai più alti valori morali. Alcuni potrebbero essere tentati di commettere reati contro le persone e la proprietà. Come scoraggiarli? Spaventandoli con lo spauracchio della pena: "Se rubi, ti becchi la galera. Se ammazzi, finisci sulla sedia elettrica". D'accordo, la sedia elettrica non ha alcun valore di recupero, ma il concetto è chiaro. E poi?

E poi basta. La pena, sia essa la prigione o la morte, non ha altro scopo. Non permette al colpevole di tornare indietro. Non gli consente di espiare alcunché. Magari soddisfa le pulsioni primordiali e i contorcimenti di budella delle vittime. Ma, al di fuori dell'autodifesa della società e della deterrenza, una pena non ha alcun significato razionale. Insomma, se ci fosse la garanzia assoluta di assenza di recidiva e di nessuna imitazione, il colpevole dovrebbe essere lasciato libero. Invocare la giustizia dimenticando l'autodifesa sociale e la deterrenza significa solo pretendere una forma di "vendetta di Stato".

Non capisco. Ascolto grida rabbiose di "Giustizia! Giustizia!" di fronte a una condanna ritenuta troppo mite. E nelle mie orecchie risuona solo "Vendetta! Vendetta!".

Shevek 

(mirrorato su Tumblr)