sabato 20 giugno 2009

Giustizia?

La bambina è stata rapita e uccisa. L'assassino è stato catturato ed è reo confesso. Inizia il processo. E' vasta la copertura mediatica. Fuori dal tribunale i giornalisti avvicinano i genitori della piccola vittima. Un commento davanti alle telecamere: "Giustizia! Vogliamo giustizia!", gridano. Se la condanna non sarà abbastanza severa ai loro occhi, li sentiremo urlare anche di più per la "giustizia negata".

Giustizia? Che cos'è la giustizia? Ovvero: perché un assassino deve andare in galera o, in alcuni Paesi, essere ucciso? Facciamo un passo indietro.

Un passo mooolto lungo. Fino nella Preistoria. Una bambina viene rapita e uccisa. I genitori e gli zii e alcuni membri del suo clan catturano l'assassino e lo linciano. Fine della storia. E' giustizia questa? No, mi dicono. E' vendetta. Che non è una bella cosa, pare. Anzitutto è sempre lasciata all'arbitrio del singolo, che può imporre una punizione sproporzionata. Magari la morte per il furto di una mela. E poi la vendetta è irrazionale: la bambina viene forse risuscitata dalla morte del proprio assassino? No di certo. La vendetta risponde solo a una pulsione primordiale e irrazionale degli essere umani. Se il colpevole la passa liscia, chi ha subito il torto in qualche modo percepisce un rimescolamento interiore delle budella. Lui la chiama "sensazione di ingiustizia". Ma di razionale non c'è nulla.

Un bel salto temporale e arriviamo a Hammurabi, creatore nel XVIII secolo a.C. del primo codice di diritto penale, civile e commerciale. Equo, per la verità, anche se oggi lo si ricorda come "legge del taglione". Certo migliore dell'arbitrio della vendetta personale. La prima, elementare e rozza ma efficace legge. Oggi si avrebbe qualche difficoltà nel riconoscere la correttezza di quei processi, ma un embrione di giustizia c'è.

Ultimo salto temporale: quasi 40 secoli. Oggi. Il tribunale nel quale si decide il destino dell'assassino delle bambina. Si applicano codici ponderosi e complessi. Lo scopo è sempre lo stesso: applicare la giustizia. Alla fine l'assassino subirà una pena. Magari il carcere. Nei Paesi più incivili la morte. Perché?

La pena ha un senso. Questo lo capisco.

Anzitutto la società deve difendere sé stessa. Siccome è pericoloso lasciare a piede libero un individuo potenzialmente ancora dannoso, è necessario renderlo innocuo. Magari rinchiudendolo in un edificio, la prigione, dove sia controllato e reso incapace di danneggiare gli altri. Meglio ancora (per "ragioni umanitarie", mi dicono) se il colpevole fosse non solo messo in condizione di non offendere più, ma anche recuperato e reinserito nel corpo sociale.

Inoltre c'è il fattore della deterrenza. Non ci si può aspettare che tutti i membri della società aderiscano ai più alti valori morali. Alcuni potrebbero essere tentati di commettere reati contro le persone e la proprietà. Come scoraggiarli? Spaventandoli con lo spauracchio della pena: "Se rubi, ti becchi la galera. Se ammazzi, finisci sulla sedia elettrica". D'accordo, la sedia elettrica non ha alcun valore di recupero, ma il concetto è chiaro. E poi?

E poi basta. La pena, sia essa la prigione o la morte, non ha altro scopo. Non permette al colpevole di tornare indietro. Non gli consente di espiare alcunché. Magari soddisfa le pulsioni primordiali e i contorcimenti di budella delle vittime. Ma, al di fuori dell'autodifesa della società e della deterrenza, una pena non ha alcun significato razionale. Insomma, se ci fosse la garanzia assoluta di assenza di recidiva e di nessuna imitazione, il colpevole dovrebbe essere lasciato libero. Invocare la giustizia dimenticando l'autodifesa sociale e la deterrenza significa solo pretendere una forma di "vendetta di Stato".

Non capisco. Ascolto grida rabbiose di "Giustizia! Giustizia!" di fronte a una condanna ritenuta troppo mite. E nelle mie orecchie risuona solo "Vendetta! Vendetta!".

Shevek 

(mirrorato su Tumblr)


Nessun commento: