sabato 24 ottobre 2009

Atomi e bit

Rideva. Mi avevano rubato il cellulare, e lei rideva. "Così impari ad affidarti alla tecnologia. Sei fregato: dove sono ora i tuoi numeri di telefono? E i tuoi appuntamenti? Eh? Dove sono?". E rideva.

Io ho comprato un nuovo cellulare, l'ho sincronizzato col computer, ho recuperato tutti i dati dal mio backup.

Oggi le hanno rubato la borsa. Dentro c'era la sua agenda. Cartacea.

Sono stronzo se rido io?

Shevek

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domenica 18 ottobre 2009

Vacche grasse e vacche magre

Dice: "Mi dispiace". Dice: "Non posso fare diversamente".

Annuisco. Che altro? Il manico del coltello ce l'ha lui. Che poi ha pure ragione.

Dice: "C'è la crisi". Che, non la vedo? M'ha preso per scemo? Ha ragione sì. Dice: "C'è stata una pesante contrazione delle entrate".

Ma è colpa mia? "No", dice, "non c'entra la qualità del tuo lavoro. Né la tua professionalità". Dice: "E' che proprio non posso far altro. Non ci son più soldi". Quindi dice: "Il tuo compenso vien ridotto". Quanto? Dice: "Di un terzo". Ma porc...

Dice: "Sai com'è, son vacche magre. Mica come prima". Prima? Dice: "Prima, ai tempi delle vacche grasse". Scusa? "Già", dice, "quando non c'era la crisi".

Son 18 anni che lavoro per lui. 18 anni, mica cazzi. Dice: "Lo so". E allora, in 18 anni, i miei compensi si son solo ridotti. Fra una crisi e l'altra, ora piglio il 20 per cento del mio compenso iniziale. Ma che storia è? Dice: "Che c'entra?". C'entra sì, ché qua dentro tutti i dipendenti hanno avuto gli aumenti previsti dal contratto collettivo. Mentre io, consulente esterno, 'na sega. Anzi, a marcia indietro. Dice: "Se non ti piace la minestra, la vedi la finestra?". Taccio, ché altrimenti... Dice: "D'altronde, sai com'è, la crisi, le vacche...".

Sai che c'è? M'han proprio scassato la minchia, 'ste vacche. Dice: "Son magre". Grazie, lo so. Ma le vacche grasse ci son mai state? Dice: "Certo". E quando, che non me l'han mai detto? Li ho mai sentiti dire: "Guarda, va di lusso, becchiamo tanti soldi, t'aumento i compensi"? Macché: sempre a pianger miseria.

Le vacche grasse io non le ho mai viste. Mi si mostran le vacche solo quando son magre. 'Ste stronze.

Dice... "Ma vaffanculo", dico io.

Shevek

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domenica 4 ottobre 2009

Il dolore, il mostro e la benzina

L'hanno rispedito a casa. Per motivi di salute: questa è la versione ufficiale. Sai com'è: è un malato terminale, il cancro alla prostata gli lascia poco da vivere. Lasciamogli tirar le cuoia a casa sua. Comprensibile, ma...

...appena arrivato in Libia, Abdelbaset Ali Mohmed Al Megrahi è stato accolto con abbracci, congratulazioni e bandiere al vento. Come un eroe, insomma. E questo non va bene. I familiari dei 270 morti nell'attentato di Lockerbie non hanno apprezzato. Non si capisce quale soddisfazione avrebbero ricavato dalla morte di Al Megrahi in carcere, ma tant'è. D'altronde almeno la festa di bentornato i libici se la potevano risparmiare.

Effetti collaterali: in Inghilterra s'è scatenata la polemica sui veri motivi del rilascio. Infatti le ragioni umanitarie non sarebbero le sole, pare. Forse. Così si dice. Anche il diritto di sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi, concesso alla BP, sembra aver giocato un ruolo. Svendiamo la giustizia per qualche bidone di petrolio. Bello schifo, vero?

Già, già. Tuttavia...

Gheddafi è stato sdoganato. Ostracizzato per anni come il mostro, il mandante di attentati, il fabbricante di armi chimiche, il lanciatore di missili sull'Europa, oggi è un capo di Stato accolto con tutti gli onori. Erige la tenda nei parchi europei, viene ascoltato all'ONU, si gode lo spettacolo delle Frecce Tricolori. I duelli aerei sul Mediterraneo non se li ricorda più nessuno. Perché adesso Gheddafi è un amico dei governi occidentali. Certo, la festa ad Al Megrahi è stata di cattivo gusto, ma non è proprio il caso di mettere in crisi gli scambi commerciali per una simile quisquilia formale.

Due miliardi di dollari: questo è stato il prezzo. Due miliardi di risarcimento ai parenti delle vittime dell'attentato di Lockerbie. Due miliardi scuciti dalla Libia per essere riammessa nel consesso delle nazioni civili. Soldi intascati dagli stessi indignati di oggi. Che nei propri serbatoi continuano a pompare benzina della BP.

Svendiamo il dolore per qualche dollaro e un pieno. Bello schifo, vero?

Shevek

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domenica 27 settembre 2009

La responsabilità del basco rosso

Voce fuori campo: "Il figlio di un eroe italiano". Primo piano del bambino col basco rosso mentre fa il saluto militare. Intorno le più alte cariche dello Stato. Mani istituzionali stringono mani vedovili. Seguono intensi abbracci, e molte lacrime inzuppano veli e grisaglie. Facce dolenti e rabbiose di parà mentre portano a spalla le bare velate dal tricolore. Tutt'intorno bandiere a mezz'asta e cordoglio nazionale. Lunghe code di cittadini per l'estremo saluto ai feretri. In milioni di case, espressioni addolorate davanti al tiggì. Addolorate e intenerite dal bimbo col basco da parà. Addolorate e incazzate per quei terroristi di merda, assassini dei "nostri soldati", anzi dei "nostri ragazzi", come spiega la TV.

Come molti, anche tu hai scelto la carriera militare. L'uso delle armi è previsto, organizzato, programmato. Sei addestrato accuratamente. Scopo: uccidere altri esseri umani. A questo servono le armi, pare. Di solito però il bersaglio non collabora, e a propria volta si arma per ucciderti. Ti stupisci?

Ora sei un professionista. Non solo: sei pure un volontario verso un'area di guerra. "Missione di pace", la chiamano. Guerra o pace? Non importa, perché di fatto sono posti dove si spara e spesso ci scappano i morti. Non è mica un mistero. Eppure tu ci vai, profumatamente pagato. C'è un rischio, manifesto e risaputo, ma tu ci vai. Non è una vacanza al Club Med, ma tu ci vai.

Poi ti sparano davvero. Oppure un'autobomba ti esplode accanto. Succede. D'altronde tu sei lì col mitra e i blindati, e magari questo non garba a qualcuno. Che ti spara e ti ammazza.

Sia chiaro: io certo non ne godo. Non è bello. Per niente. Mi dispiace molto per te e per il tuo bambino col basco da parà. Però una domanda voglio fartela: che ti aspettavi? Era nel conto. O no?

Adesso il Paese ti considera un eroe. "Non meritava un destino così crudele", dicono tutti. "Non è giusto", aggiungono. "Bisogna farla pagare ai colpevoli", concludono.

Io non capisco: qualcuno dovrebbe spiegarmi dove sta, in tutto questo, la presa a carico delle conseguenze delle proprie scelte. "Responsabilità individuale", si chiama. Ecco, dove sta?

Shevek

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sabato 15 agosto 2009

"Per fortuna non ci sono italiani fra le vittime"

Centinaia di morti nel naufragio della nave. O nell'incidente aereo. O nel disastro ferroviario. O nell'attentato terroristico. O nel terremoto. "Per fortuna", tiene a precisare la lettrice del telegiornale, "non ci sono italiani fra le vittime". Ah, meno male. Mi sento più tranquillo. Scusate, ma... chissenefrega?

Non vorrei essere frainteso: il mio non è cinico disinteresse per la sorte di centinaia di persone. Mi sento toccato profondamente e commosso e addolorato. Solo... non riesco a sentirmi più rattristato per la morte di alcuni esseri umani che per quella di altri. Voglio dire: per quale motivo la morte di alcuni cittadini italiani dovrebbe coinvolgermi più della scomparsa di alcuni cittadini marocchini o argentini? Li conoscevo? Certo, se nella sciagura muore mio fratello o mia cugina o un mio amico o almeno un mio conoscente, io sono toccato direttamente. Colpito, impressionato. Perfino afflitto e prostrato. E anche se muoiono degli sconosciuti io provo dispiacere, perché sempre mi affligge il pensiero della scomparsa di qualche vita umana. Questo dev'essere chiaro. Ma per quale ragione la morte di Mario Rossi e Luisa Bianchi, rispettivamente di Cagliari e Pistoia, dovrebbe interessarmi più della morte di Mustafa Aziz o di Consuelo Rodriguez, rispettivamente di Marrakech e Buenos Aires? Non sapevo nulla di Mustafa e Consuelo ma neppure di Mario e Luisa. Con questi ultimi, a parte la lingua e qualche addentellato culturale, non avevo nulla in comune. E allora... forse certi morti sconosciuti hanno da essermi cari più di altri solo per il loro passaporto?

Eppure le cronache televisive sono piene di resoconti strappalacrime sulle povere vittime italiane. Le troupe televisive assediano le case dei parenti di Mario e Luisa per estorcere un commento, per zoomare su una lacrima, per frugare nei soggiorni e nelle camere da letto, per scovare storie banali nel passato delle vittime. Delle storie di Mustafa e Consuelo, evidentemente, agli italiani non deve importare nulla. Importerà, per qualche assurda ragione, solo ai marocchini e agli argentini, ai quali peraltro non fregherà nulla di Mario e di Luisa. Perché? Eppure sono tutti perfetti sconosciuti.

Lo so: un fatto non è mai una notizia. Diventa tale se possiede alcuni valori-notizia. Lo insegnano nelle scuole di giornalismo: uno dei valori-notizia è la vicinanza geografica o culturale dell'evento. Siccome la gente si impressiona per quanto le accade vicino, bisogna dare al pubblico quello che lui vuole nella forma che lui vuole. Ciò non toglie, beninteso, che tutto questo sia irrazionale e assurdo.

Chissà come le 40 vittime di un pullman precipitato da un viadotto sono una tragedia nazionale da prima pagina se l'evento accade a Udine, una disgrazia nella pagina di esteri se succede a Oslo e un brevina da poche righe nelle news se si verifica a Teheran. Incomprensibilmente, per un giornalista italiano rapito in Iraq si mobilitano migliaia di persone a Milano, ma per smuovere i cittadini di Madrid ci vuole il rapimento di un reporter spagnolo. Il 7 luglio 2005 di Londra è una comune giornata di Baghdad ma, assurdamente, il risalto giornalistico è diverso in modo abissale. Eppure nessuno se ne accorge.

Io non capisco. Perché?

Shevek

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sabato 8 agosto 2009

Fenomenologia sociale della gnocca

Contesto: il reparto alimentari del supermercato. Personaggi: la solita folla del sabato pomeriggio. Elemento di disturbo: la gnocca. Oggettivamente è gnocca: ha un fisico mozzafiato. E oggettivamente lo sa e lo mette in mostra: pantaloncini corti che evidenziano le gambe lisce e affusolate, camicetta aderente e scollata che nel contempo scopre l'ombelico. Insomma, poca stoffa e tanta carne all'aria.

Non m'interessa la gnocca. M'interessano gli effetti della gnocca. Che percorre spavalda e a lunghe ed eleganti falcate i corridoi fra gli scaffali. Bizzarra è la reazione umana al transito della gnocca. La reazione maschile, per la precisione. C'è quello che la squadra allupato e diretto, senza pudori. C'è quell'altro che fa lo stesso ma almeno aspetta che la gnocca sia transitata e gli rivolga spalle. C'è poi uno che è in compagnia della moglie impegnata ad asportare scatolame e bottiglie dagli scaffali. Costui manifesta la più totale indifferenza al passaggio della gnocca: non muove un muscolo, non sposta di un grado la direzione di visuale. Ma quando la consorte volta la testa... zac! Parte lo sguardo bieco e bavoso. Appena la moglie si raddrizza, il tizio ricompone tutta la propria indifferenza.

Che c'è di strano? Niente e tutto. Niente perché la gnocca è gnocca, gli ormoni sono ormoni e i richiami sessuali espliciti riscuotono sempre successo. Istinto naturale verso l'accoppiamento, si chiama. La stranezza sta nell'effetto diverso della stessa manifestazione in differenti contesti sociali. La stessa gnocca, con un bikini addosso, su una spiaggia riscuoterebbe poco più di uno sguardo annoiato.

La gnocca è sempre quella. La superficie di carne scoperta è la stessa. Anzi, in spiaggia ce n'è anche di più. Ma al supermercato l'allupamento maschile è assai superiore. Perché?

Shevek

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venerdì 26 giugno 2009

Tifo

E' interista per tradizione di famiglia: "Sono stato tirato su a pane e Inter", spiega. Però vive a Bergamo, non a Milano. Che c'entra l'Inter con Bergamo? Del resto non gli importa più di tanto, perché regolarmente va allo stadio per seguire la sua squadra, quando gioca in casa, e se appena ne ha la possibilità la segue anche in trasferta. Legge regolarmente la Gazzetta e si trova con gli amici al bar per commentare le partite. E' una passione irrefrenabile, la sua. Perché?

"Tu non puoi capire, Shevek", è l'immancabile risposta di ogni tifoso, e poco importa se dell'Inter o del Milan, della Fiorentina o della Juventus. Questo è il tifo: nella migliore delle ipotesi si manifesta con un blando interesse per le prodezze della squadra del cuore e nella peggiore sconfina nell'idolatria con gli altarini e i santini dei calciatori.

Eppure a me sembra tutto un po' assurdo. Per quale motivo dovrei appassionarmi alle prodezze di questa squadra piuttosto che a quelle di un'altra?

Prima possibilità: è la mia squadra, cioè io ne sono il proprietario. Allora non si discute: è il mio giocattolo privato e lo faccio incontrare con i giocattoli di altri ricchi proprietari come me. E' il caso dei Berlusconi e degli Agnelli. Però decisamente non è questa la mia situazione. Né è quella della miriade di tifosi sbavanti ogni domenica negli stadi o davanti alla televisione.

O forse dovrei appassionarmi alle vicende di questa squadra perché è la squadra della mia città? Mi sembra comunque bizzarro. Che ci sia nato o che ci sia arrivato dopo, io abito qui per puro caso. Perché dovrei privilegiare proprio questa squadra? D'altronde spesso i calciatori e l'allenatore e i dirigenti con la mia città non c'entrano nulla: è quasi tutta gente venuta da lontano. Magari neppure spiccicano una parola di italiano. Sono solo mercenari. Sicché oggi il grande campione è il beniamino della tifoseria, e domani, cambiata città e casacca, diventerà il nemico al quale sputare addosso. E poi... il legame residenziale significa forse che se mi trasferissi dovrei cambiare squadra del cuore? Chi lascia Milano per Firenze deve abbandonare anche il Milan o l'Inter per consacrarsi alla Fiorentina? "Sei matto? La squadra del cuore è quella, e quella deve rimanere!", si inalberano i tifosi. Del resto, se davvero il tifo dipendesse dalla città di residenza, non si spiegherebbero i tifosi juventini a Milano o quelli romanisti a Firenze.

Magari il tifo si trasmette di padre in figlio. "Siamo di famiglia laziale", chiariscono alcuni. Così come si è cattolici o comunisti per educazione: perché si sono ricevuti e assimilati quei valori e quella Weltanschauung dalla famiglia o dalla società. Strano paragone, però. Le convinzioni religiose, filosofiche e politiche hanno un fondamento razionale, possono essere giustificate con un'argomentazione dialettica. Possono quindi essere condivise e trasmesse, se la loro presentazione è convincente. Ma s'è mai visto un tifoso convincere un altro a cambiare squadra? Perfino il gusto artistico può essere giustificato, almeno in parte, in maniera razionale: chi ama Bach e Caravaggio sa anche spiegare perché trova quella musica e quella pittura "belle". Ma come può una squadra essere apprezzata per motivi estetici? Non certo perché gioca meglio delle altre. Tant'è vero che i tifosi non esitano a criticare senza pietà la propria beniamina quando fa schifo sul campo.

E allora? Allora non c'è uno straccio di motivo razionale per il tifo sportivo. Non la residenza in una città, non la composizione della squadra e neppure la qualità del gioco. Il tifo è un'attività umana banalmente assurda.

Non capisco. Per quest'assurdità ci sono esseri umani che soffrono, piangono e si disperano, si riducono sul lastrico, scendono in piazza, minacciano sommosse, si ammazzano l'un l'altro, perfino. Perché?

Shevek

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sabato 20 giugno 2009

Giustizia?

La bambina è stata rapita e uccisa. L'assassino è stato catturato ed è reo confesso. Inizia il processo. E' vasta la copertura mediatica. Fuori dal tribunale i giornalisti avvicinano i genitori della piccola vittima. Un commento davanti alle telecamere: "Giustizia! Vogliamo giustizia!", gridano. Se la condanna non sarà abbastanza severa ai loro occhi, li sentiremo urlare anche di più per la "giustizia negata".

Giustizia? Che cos'è la giustizia? Ovvero: perché un assassino deve andare in galera o, in alcuni Paesi, essere ucciso? Facciamo un passo indietro.

Un passo mooolto lungo. Fino nella Preistoria. Una bambina viene rapita e uccisa. I genitori e gli zii e alcuni membri del suo clan catturano l'assassino e lo linciano. Fine della storia. E' giustizia questa? No, mi dicono. E' vendetta. Che non è una bella cosa, pare. Anzitutto è sempre lasciata all'arbitrio del singolo, che può imporre una punizione sproporzionata. Magari la morte per il furto di una mela. E poi la vendetta è irrazionale: la bambina viene forse risuscitata dalla morte del proprio assassino? No di certo. La vendetta risponde solo a una pulsione primordiale e irrazionale degli essere umani. Se il colpevole la passa liscia, chi ha subito il torto in qualche modo percepisce un rimescolamento interiore delle budella. Lui la chiama "sensazione di ingiustizia". Ma di razionale non c'è nulla.

Un bel salto temporale e arriviamo a Hammurabi, creatore nel XVIII secolo a.C. del primo codice di diritto penale, civile e commerciale. Equo, per la verità, anche se oggi lo si ricorda come "legge del taglione". Certo migliore dell'arbitrio della vendetta personale. La prima, elementare e rozza ma efficace legge. Oggi si avrebbe qualche difficoltà nel riconoscere la correttezza di quei processi, ma un embrione di giustizia c'è.

Ultimo salto temporale: quasi 40 secoli. Oggi. Il tribunale nel quale si decide il destino dell'assassino delle bambina. Si applicano codici ponderosi e complessi. Lo scopo è sempre lo stesso: applicare la giustizia. Alla fine l'assassino subirà una pena. Magari il carcere. Nei Paesi più incivili la morte. Perché?

La pena ha un senso. Questo lo capisco.

Anzitutto la società deve difendere sé stessa. Siccome è pericoloso lasciare a piede libero un individuo potenzialmente ancora dannoso, è necessario renderlo innocuo. Magari rinchiudendolo in un edificio, la prigione, dove sia controllato e reso incapace di danneggiare gli altri. Meglio ancora (per "ragioni umanitarie", mi dicono) se il colpevole fosse non solo messo in condizione di non offendere più, ma anche recuperato e reinserito nel corpo sociale.

Inoltre c'è il fattore della deterrenza. Non ci si può aspettare che tutti i membri della società aderiscano ai più alti valori morali. Alcuni potrebbero essere tentati di commettere reati contro le persone e la proprietà. Come scoraggiarli? Spaventandoli con lo spauracchio della pena: "Se rubi, ti becchi la galera. Se ammazzi, finisci sulla sedia elettrica". D'accordo, la sedia elettrica non ha alcun valore di recupero, ma il concetto è chiaro. E poi?

E poi basta. La pena, sia essa la prigione o la morte, non ha altro scopo. Non permette al colpevole di tornare indietro. Non gli consente di espiare alcunché. Magari soddisfa le pulsioni primordiali e i contorcimenti di budella delle vittime. Ma, al di fuori dell'autodifesa della società e della deterrenza, una pena non ha alcun significato razionale. Insomma, se ci fosse la garanzia assoluta di assenza di recidiva e di nessuna imitazione, il colpevole dovrebbe essere lasciato libero. Invocare la giustizia dimenticando l'autodifesa sociale e la deterrenza significa solo pretendere una forma di "vendetta di Stato".

Non capisco. Ascolto grida rabbiose di "Giustizia! Giustizia!" di fronte a una condanna ritenuta troppo mite. E nelle mie orecchie risuona solo "Vendetta! Vendetta!".

Shevek 

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sabato 23 maggio 2009

...e una botta a sinistra

Il privilegio: ecco il nemico storico della sinistra.

Uno sguardo sulla realtà mostra grandi disuguaglianze fra gli esseri umani. C'è chi ha molto e chi ha poco o nulla. C'è chi sfrutta e chi è sfruttato. C'è chi comanda e chi è costretto a ubbidire. Il potere, economico o politico, rappresenta una forma di privilegio. E da sempre chi si definisce di sinistra ha a cuore il destino di chi privilegiato non è. Ecco allora le lotte per abbattere i privilegi. Ecco le rivoluzioni, o almeno le riforme. Ecco gli scontri sindacali per migliori condizioni salariali e di lavoro. E' questo il progresso: l'evoluzione verso una società più giusta, nella quale si riconosca la sostanziale uguaglianza fra gli esseri umani, gli stessi diritti indipendentemente dall' appartenenza etnica, dalle inclinazioni sessuali, dalle idee politiche, dalle convinzioni religiose. Nessuno dev'essere discriminato per questi motivi. E, per gli stessi motivi, nessuno dev'essere privilegiato.

La lotta comincia in tempi remoti. Durante la Rivoluzione Francese si lottava contro i privilegi del Primo e del Secondo Stato. E le rivoluzioni dei due secoli successivi furono fatte in nome dei "dannati della terra", degli ultimi, dei più offesi, vilipesi, sfruttati. Dove sono oggi? Non li vediamo più. La sinistra dei Paesi dell'Occidente avanzato ha sconfitto la povertà e lo sfruttamento. Che però non sono scomparsi, ma si sono solo trasferiti altrove. I "dannati della terra" oggi sono nelle favelas sudamericane, nelle fabbriche cinesi, pakistane e filippine, nelle campagne africane. Una parte della sinistra combatte per loro, in nome di "un altro mondo possibile". Un'altra parte continua a guardarsi in giro un po' spaesata e cerca le vittime del privilegio di oggi. E le trova. O, meglio, sembra trovarle.

Una carovana di nomadi si installa su un terreno privato. Al sopraggiungere della polizia rifiuta di andarsene. Alcuni nomadi si intrufolano nelle case e negli appartamenti di un paese vicino, rubacchiando qua e là. La carovana se ne va solo dopo qualche giorno, lasciando il terreno in condizioni pietose. Gli abitanti del paese si dichiarano stufi e dei nomadi non vogliono mai più sentir parlare. Voci da sinistra: "Razzisti!".

Un collettivo di giovani occupa abusivamente uno stabile privato e organizza un centro sociale, le cui attività spaziano dal teatro sperimentale ai concerti di gruppi underground. Queste manifestazioni, realizzate in orario notturno, provocano un viavai fino alle ore piccole. Inizia lo spaccio di droghe leggere sui marciapiedi di fronte al centro sociale. Potenti casse assordano gli abitanti del quartiere. I vicini chiamano la polizia. Le autorità ipotizzano uno sgombero con la forza. Voci da sinistra: "E' una censura delle istanze giovanili!".

Un impiegato in un'azienda brilla per le sue continue assenze, ogni volta giustificate con motivi quanto meno discutibili. Anche quando c'è, lavora poco e male. La direzione decide di licenziarlo. Voci da sinistra: "E' un sopruso!". Il sindacato scatena un processo. L'azienda è costretta a reintegrare l'impiegato lavativo.

Che cos'è il privilegio? E' il diritto di fare qualcosa negato ad altri. Io non posso campeggiare su un terreno privato: se lo faccio, il proprietario chiama la polizia e mi fa sloggiare. Non posso neppure installarmi nelle case altrui, né spacciare droga per strada, né assordare il vicinato con la mia musica al massimo volume: se lo faccio, la polizia mi caccia, mi arresta, mi zittisce. Né posso permettermi di battere la fiacca: se lo faccio, la mia coscienza (forse la peggiore delle polizie) mi condanna e mi rimprovera. Ad altri, invece, questo è permesso senza portare le conseguenze delle proprie azioni. Non è anche questo un privilegio?

"L'uguaglianza, Shevek, è un valore irrinunciabile": così mi dicono da sinistra. Annuisco convinto. Poi però assisto ad abusi tollerati per alcuni e sanzionati per altri, con la benedizione di quella stessa sinistra. Perché?

Non capisco. Difendere il nomade ladro, il giovane casinista, l'impiegato fannullone non significa difendere il privilegio? Dov'è la solidarietà con gli oppressi, ossia i cittadini vittime dei furti, gli abitanti del quartiere assordati, i dipendenti impegnati?

Shevek

P.S.: Sul balcone di un appartamento vicino al centro sociale abusivo è apparso uno striscione: "Perché voglio dormire sono fascista?".

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sabato 16 maggio 2009

Una botta a destra...

La disuguaglianza, mi si spiega da destra, nasce dal merito. Chi merita di più ha di più. Sorvoliamo sull'incoerenza del diritto ereditario e prendiamo per buona questa filosofia. Sembra un ragionevole principio di giustizia. Il padrone della fabbrica guadagna più dei suoi operai e dei suoi impiegati, e quindi gode di una vita materialmente migliore, perché merita più di loro. Per la quantità del suo lavoro? Pare di no. Spesso anzi il padrone lavora meno. Per la qualità, invece. Il suo lavoro è più qualificato. E anche per il rischio. Il padrone della fabbrica guadagna di più perché si assume, di tasca propria, il rischio di fallire. Il suo guadagno non è garantito, ma dipende da come lui, con le proprie capacità, manderà avanti la fabbrica: tanti soldi ma poca sicurezza. L'operaio e l'impiegato, invece, hanno la certezza di avere una cifra fissa in busta paga a fine mese, comunque vadano gli affari del padrone. L'operaio e l'impiegato guadagnano meno ma rischiano meno: pochi soldi ma tanta sicurezza. Chiamiamolo "principio di responsabilità".

Questo in teoria. Scendiamo ora nei meandri della realtà. Il padrone spesso, di fatto, non esiste più. Molte imprese ormai hanno una proprietà frammentata nelle mani di una miriade di azionisti. Certo, di solito ce n'è qualcuno con quote azionarie più ampie, magari maggioritarie. Spesso l'azionista di maggioranza è l'erede della dinastia familiare fondatrice dell'impresa. Costui fa il bello e il brutto tempo in azienda. Poi ci sono i manager. Strapagati, con stipendi e rendite migliaia di volte superiori a quelli dei propri dipendenti. "E' ovvio, Shevek: hanno una grande responsabilità. Dalle loro decisioni dipendono le sorti dell'azienda". Si può disquisire sulla legittimità di questa disuguaglianza materiale, ma il ragionamento, in teoria, fila. Del resto, mi si ricorda sempre, appiattire gli stipendi è controproducente: "Pensa al comunismo, pensa a quelle economie fallimentari in cui tutti, dal dirigente all'ultimo operaio, guadagnavano le stesse cifre. Quale stimolo può indurre il manager a prendere decisioni difficili, se guadagna quanto un impiegato qualsiasi?". Giusto. Infatti il comunismo (quel comunismo, almeno) è morto e sepolto. Trionfa al suo posto un sano liberismo, nel quale viene premiata la responsabilità. Davvero?

Guardiamoci in giro. Vediamo aziende miseramente fallite perché amministrate male, mentre i loro manager prendono buonuscite milionarie. Scusate, ma il merito dov'è? Perché strapagarli se hanno fatto male il loro lavoro? Oppure vediamo aziende floride, in pieno attivo, impegnate a licenziare centinaia, magari migliaia di persone (si chiamano "ristrutturazioni"), per trasferirsi altrove, dove la manodopera costa meno (viene definita "delocalizzazione"). Su chi ricade la responsabilità di queste scelte? Sui manager, sui membri del consiglio d'amministrazione, sui grandi azionisti. E chi si fa carico delle conseguenze? I dipendenti: operai e impiegati di fatto non hanno alcuna certezza, subiscono gli effetti di scelte altrui, sono impotenti. Pochi soldi e poca sicurezza per chi sta in fondo alla gerarchia.

Non capisco. Dov'è finito, in questo mondo liberale e liberista, il "principio di responsabilità"?

Shevek

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sabato 9 maggio 2009

Disuguaglianze

Due auto nel parcheggio: una Mercedes e una Volkswagen Polo. Una vettura di lusso e un'utilitaria. Due auto, due proprietari: una signora benestante e un apprendista sottopagato. Nella Mercedes la signora gode del silenzio e dell'isolamento, della frescura dell'aria condizionata, di un hi-fi potente, di un navigatore che la porta dove lei desidera, di un motore poderoso e sensibile al tocco più delicato del piede. Nella Polo l'apprendista non ha neppure gli alzacristalli elettrici, perché è un vecchio modello di quarta mano. Le loro abitazioni riflettono le stesse disuguaglianze: una villa lussuosa con parco e piscina, e un modesto bilocale condiviso con la madre in un palazzone di periferia. Spingendo lo sguardo un po' più lontano, immaginiamo i pasciuti plutocrati ospiti permanenti di un albergo a cinque stelle mentre prendono il sole sul bordo della piscina, e ancora più lontano le ragazzine delle favelas sudamericane costrette a prostituirsi per mangiare. Perché?

Tutti, ricchi e poveri, hanno 46 cromosomi, alcune decine di migliaia di geni. Tutti sono nati da uomo e da donna. Tutti aspirano alla felicità. Che non coincide con il benessere materiale, ma di cui certo il benessere materiale (ipocrita chi lo nega) contribuisce a far sentire meno la mancanza. Eppure fra tutti questi uomini e queste donne, fra questi 7 miliardi di abitanti del terzo pianeta del Sole, sussistono abissi di disuguaglianza materiale. Perché?

Mi si risponde che la disuguaglianza è innata. Che proprio quei 46 cromosomi e quelle migliaia di geni rendono gli uomini e le donne diversi, e quindi diversi i loro destini. In sostanza, mi pare di capire, se qualcuno è più attivo e volonteroso è giusto che nella vita goda di un successo maggiore, sotto forma di benessere materiale. Sembra convincente, a prima vista. Ecco la ragione delle disuguaglianze, fondate quindi sulla libera volontà individuale: si è diversi perché si vuole essere diversi.

Ma si vuole... sempre? L'impegno e la volontà sono sempre il fattore determinante? Non sono, piuttosto, basati sulle qualità intrinseche? Insomma, ha successo chi ha i mezzi, gli strumenti offerti dalla natura per mettere a frutto l'impegno. Chi è dotato di un talento avrà più possibilità di arricchirsi di chi invece ne è privo. Ma allora la differenza va cercata nella fortuna. Non c'è merito nel nascere dotati. E dunque, se non c'è merito, perché si dovrebbe goderne di più? Mi sento replicare che ognuno ha dei doni, diversi da quelli di tutti gli altri. Che un uomo povero è solo un uomo rotondo in un buco quadrato, che non ha voluto o non ha potuto seguire la propria vera vocazione, grazie alla quale avrebbe raggiunto l'eccellenza e sarebbe diventato ricco. La società deve migliorare per arrivare a offrire a chiunque, davvero a chiunque, la possibilità di trovare la propria strada per eccellere. Elargendo a ciascuno le stesse possibilità di partenza. "Abbi pazienza, Shevek: ci stiamo lavorando". In teoria funziona. Ma nei fatti...

Nei fatti, la proprietaria della Mercedes è una nullafacente che vive di rendita grazie agli appartamenti ereditati dal padre, un avvocato di successo che, partendo dal nulla, era diventato un principe del foro, si era arricchito, aveva investito oculatamente i propri risparmi in immobili e, alla propria morte, aveva lasciato tutto alla figlia. E lei ora, senza arte né parte, senza alcun impegno personale, si gode un'esistenza dorata. Il padre ha sgobbato duro, ha dimostrato di avere capacità e volontà, e certo la ricchezza se l'è (nell'ottica del merito individuale) conquistata. Ma la figlia? Lei ha avuto solo la smodata fortuna di essere la prole di un ricco. Non c'è merito in questo. E nei fatti non c'è colpa nell'apprendista, figlio di una ragazza madre, una working poor che a malapena riesce a mettere assieme il pranzo con la cena e non ha potuto farlo studiare. Peccato, però, perché il ragazzo è molto dotato e avrebbe voluto (e potuto, in teoria) diventare un ottimo chirurgo. Vedi un po' la sfortuna... Analogo discorso per il ciccione sul bordo della piscina, rampollo per caso di una famiglia di ricchi possidenti, e per la ragazzina delle favelas, progenie fortuita della povertà e della degradazione.

Se si scoprono discriminazioni, tutti esprimono sdegno e levano alte proteste. Per esempio, laggiù i neri non votano. Orrore e raccapriccio! Perché? "Ma sei scemo, Shevek? Perché il colore della pelle non è una colpa, ma solo una circostanza fortuita!". Altrove gli omosessuali sono perseguitati e imprigionati. Indignazione e rabbia! Perché? "Ma come perché? Essere omosessuali non è una scelta! E' una propensione naturale, è un modo di essere indipendente dalla volontà!". E che dire di quei posti nei quali le donne sono costrette al velo? Condanna e riprovazione! Perché? "Di nuovo, perché non si determina il proprio genere!". Capisco. Va bene. Non si decide di nascere ebrei o con gli occhi a mandorla, così come non si sceglie di essere omosessuali o biondi o alti. Discriminare una persona per una sua caratteristica casuale, favorendola o sfavorendola per questo, è sbagliato. Vogliamo dire immorale? Diciamo immorale. Ebbene, è curioso constatare come, laddove la discriminazione etnica o sessuale o di genere è inaccettabile, la discriminazione economica non suscita alcuno stupore. Il figlio del ricco è ricco, sebbene la sua nascita sia stata casuale e immeritevole quanto il colore della sua pelle.

Nel 1680 venne pubblicato Patriarcha, or the Natural Power of Kings, un'opera postuma di Sir Robert Filmer. L'autore giustifica il diritto divino dei re sulla base del principio ereditario. I suoi argomenti sarebbero stati demoliti pochi anni dopo da John Locke, com'è noto. Oggi li troviamo ridicoli. Le poche dinastie regnanti nei moderni regimi monarchici ma democratici hanno un potere poco più che simbolico. Ma ecco quanto scrive Bertrand Russell nella sua Storia della filosofia occidentale: "E' curioso che il rifiuto del principio ereditario in politica non abbia avuto quasi alcun effetto nel campo economico nei paesi democratici. (...) Ci sembra ancora naturale che un uomo lasci la sua proprietà ai figli; accettiamo cioè il principio ereditario per quel che riguarda il potere economico, mentre lo respingiamo nei riguardi del potere politico. Le dinastie politiche sono scomparse, ma le dinastie economiche sopravvivono. Non intendo ora prendere posizione pro o contro questo diverso trattamento delle due forme di potere. Sto semplicemente mettendo in luce questa realtà, e il fatto che la maggior parte degli uomini non se ne sia accorta. Riflettete a quanto ci sembra naturale che il potere sulla vita degli altri, derivante da una grande ricchezza, debba essere ereditario, e capirete meglio come uomini del tipo di Sir Robert Filmer potessero sostenere lo stesso principio nei riguardi del potere dei re; (...)".

Non capisco. Vedo che gran parte delle disuguaglianze materiali trova una giustificazione nel puro caso. In barba alle massime dichiarazioni d'intenti sull'uguaglianza di opportunità fra gli esseri umani. Perché?

Shevek

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domenica 3 maggio 2009

Una domenica, dopo la Messa

Il sole negli occhi. Mi godo la calura precoce di questa primavera che anticipa l'estate. Una tranquilla domenica, sul sagrato della chiesa parrocchiale. Per curiosità, stamattina sono stato a Messa. E ora mi ritrovo, abbandonato su questa panchina, a osservare i bambini più grandicelli che corrono mentre le loro mamme chiacchierano spingendo le carrozzine dei fratellini più piccoli.

Si avvicina una... una signora, direi, perché definirla "ragazza" sarebbe ormai fuori luogo. Sulla trentina, in abito sportivo. Anche lei con la sua carrozzina. Dentro c'è un fagottino con un pagliaccetto azzurro. Dorme tranquillo. La osservo di sbieco, senza farmi notare. L'avevo già notata prima, in chiesa, mentre mi aggiravo fra i banchi. Dopo la Comunione si era inginocchiata con intenzione, assorta. Ora si siede sulla mia panchina e si guarda in giro. Poi si volta verso di me e...

"Bella giornata, vero?".

Si vede che ha voglia di chiacchierare. Io no, ma non voglio essere scortese. Invece che un grugnito, emetto un educato "Già". La signora non si dà per vinta: "E' solo?".

Ma tutte a me devono capitare le persone bisognose di un contatto umano? Reitero il "Già" di prima, sperando che stavolta intuisca.

"E' stato a Messa?". Niente: è proprio di coccio.

"Già", insisto. Penserà che il mio lessico si limiti a quest'unico avverbio. Pazienza.

"Anch'io. Stamattina mi è proprio piaciuta la predica di don Sandro".

Ho capito: non me la scrosto. Però magari riesco a cavarne qualche informazione interessante. "Davvero?", chiedo.

"Sì, don Sandro è un prete così moderno... Da quando c'è lui vengo a Messa molto più volentieri".

Chissà perché, a me i discorsi di don Sandro sono sembrati un coacervo di banalità buoniste. Ma voglio lasciarla chiacchierare, così esco dal mio mutismo e mi presento: "Mi chiamo Shevek".

Spero che, nella sua ansia di attaccare bottone, lei non si metta a far domande. Macché: "Io mi chiamo Franca. Le dicevo che...". Per fortuna è troppo egocentrica per essere interessata a qualcosa che non sia se stessa. Meglio così.

"...che don Sandro è davvero un uomo speciale. Aperto, solare, tollerante. Da lui mi sento capita. Così ho deciso che sarà lui a sposarmi".

Trasecolo: la signora con prole non è coniugata? "Scusi... sposarsi?".

"Sì, certo. Il mio compagno e io, il papà di Matilde, conviviamo da tre anni. Ma ora abbiamo deciso di sposarci in chiesa. E stiamo seguendo il corso che don Sandro tiene ai fidanzati per la preparazione al matrimonio".

Inarco un sopracciglio. Questa donna non è caduta da cavallo sulla strada di Damasco: è cattolica da un pezzo. Ma ciò non le ha impedito di convivere e avere una figlia senza sposarsi in chiesa. Adesso il prete, sebbene lei viva tuttora "nel peccato", la accoglie a Messa, le lascia prendere la Comunione, le fa seguire un corso di preparazione al matrimonio.

Non dico nulla. Tanto lei va avanti a ruota libera. "Invece il prete della chiesa in cui andavo prima, sebbene fosse anche più giovane di don Sandro, era un tale rompi... Non la finiva più di ricordarmi che convivere è sbagliato, che un figlio fuori dal matrimonio dà scandalo... e un giorno si è perfino rifiutato di darmi la Comunione. Una vergogna, davanti a tutti! Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ero stufa e avevo sentito parlare bene di don Sandro, così ho cominciato a frequentare questa parrocchia". Tace. Sembra che si aspetti una replica da parte mia. Quasi quasi la provoco.

"Lei è cattolica?". Vediamo se mi segue...

Si stupisce: le sembra scontato. "Ma che domanda è? E' ovvio!".

Bene, bene, bene... "Quindi lei accetta i dogmi della religione cattolica. E dovrebbe seguire i precetti che la Chiesa cattolica prescrive".

Ha lo sguardo vacuo di chi non capisce. "Sì, ma... in che senso, scusi? Cioè... che cosa vuol dire?".

Parto con il primo affondo: "Vuol dire per esempio che lei stamattina, prendendo la Comunione, si è nutrita di Dio".

Una ruga le si forma fra le sopracciglia.

"Lei sa che l'ostia consacrata è un pezzo di Dio, vero?", proseguo.

"Sì, questo è quello che dicono i preti".

"No, Franca, questo è ciò che è vero per ogni cattolico. E' un fatto chiamato transustanziazione".

"Transu... che?".

Ecco, qui ti volevo. "Vuol dire che quel pezzo di pane che lei ha mangiato è un pezzo di Dio, non un semplice simbolo".

Mi guarda come se fossi un integralista. "Senta, scusi, ma non è che si può prendere per oro colato tutto quello che dicono i preti, eh!".

"Ah, no? Lei sa che per queste cose nei secoli passati la gente scatenava guerre, persecuzioni e roghi? Sono questioni importanti, di sostanza. Lei è libera di non crederci, ma in tal caso lei non è cattolica. Certo, magari la sua famiglia è cattolica e lei è stata educata in questa religione e ancora va in chiesa a prendere la Comunione, ma in fondo... se lei non accetta questi dogmi, lei non è cattolica. Sarà qualcosa di altrettanto dignitoso, magari sarà evangelica, ma non è cattolica. Che cos'è quello?".

Distratta dalla mia domanda inattesa, Franca segue la direzione del mio dito e si osserva il medaglione appeso al collo. "Una spirale celtica, perché?".

Ho inquadrato il personaggio e parto con il secondo affondo: "Che cosa rappresenta?".

"Me l'ha regalata il mio maestro di yoga". Si è fatta titubante. Capisce che sta camminando su un terreno minato. Per questo evita di rispondere. Ma, cara mia, con te non ho ancora finito: "Bella! Ma che cosa rappresenta?".

Si sente sotto processo, sente che le sue convinzioni sono messe in discussione, così ha un soprassalto d'orgoglio e mi guarda sprezzante: "Rappresenta l'eterno ritorno. Il mio maestro me l'ha regalata per ricordarmi che tutto torna da dove è venuto. E' una sapienza antichissima, che risale agli antichi Egizi, che l'avevano ricevuta dai buddhisti e che l'hanno trasmessa ai Celti".

Mica male: idee poche ma confuse. Non commento e la lascio proseguire a ruota libera. Tanto ormai s'è scordata di don Sandro, la transustanziazione e la castità prematrimoniale. Adesso è lanciata sulla New Age. Vediamo dove arriva. "Che cosa significa che la spirale rappresenta l'eterno ritorno?", la incalzo.

"Significa, come le ho detto, che tutto torna da dove è venuto. Anche noi: nasciamo, viviamo, moriamo, poi rinasciamo... E' la reincarnazione, no?".

Ecco, anche la metempsicosi, adesso. Non avrei potuto sperare di meglio. Ma dev'essermi sfuggito un commento soprappensiero, perché la sento dire "Metemp... che?".

La cultura di questa genialona è davvero enciclopedica. "Niente, è solo la parola greca che descrive la trasmigrazione in un altro corpo dell’anima dopo la morte", rispondo. E poi aggiungo: "Lei sa che questa convinzione contrasta con la fede cattolica, vero?".

"Ma che c'entra? Uno non può credere un po' in quello che vuole? Mica devo pensare che è vero tutto quello che dicono i preti! Chissà quante balle ci rifilano! Bisogna essere critici, aperti. Bisogna saper prendere quello che di buono e di giusto c'è in ogni religione e...".

"No, Franca", la interrompo, "bisogna avere il coraggio di tirare le conseguenze, di chiamare le cose con il loro nome. E di ammettere che, se si segue una religione-fai-da-te, non si è più cattolici". Poi mi alzo e me ne vado.

E ora penso. Io non sono cristiano e men che meno cattolico. Però non posso fare a meno di prendere atto incuriosito di quello che vedo. E vedo gente davvero strana.

Gente che va a Messa perché così le è stato insegnato a fare nella propria tradizione culturale. Ma che non ha la più pallida idea di ciò che sta davvero facendo.

Gente che si dichiara cattolica e magari va pure a salutare il Papa, quando viene in visita nel suo Paese, sventolando le bandierine colorate e applaudendo e perfino commuovendosi. Ma che non ha la minima intenzione di conformarsi ai precetti che la Chiesa impone.

Gente che si oppone alla possibilità per adulti consenzienti e omosessuali di vivere apertamente e legalmente le proprie relazioni, "perché la famiglia tradizionale è il fondamento della nostra società". Ma che, senza tanti scrupoli, scopa e procrea prima del matrimonio e poi, dopo il matrimonio, tradisce il proprio coniuge, alla fine divorzia e magari si costruisce una nuova famiglia con qualcun altro.

Gente che si dichiara cattolica. Ma che riesce a far convivere credenze e superstizioni provenienti dalle culture più remote, convinzioni spesso incoerenti e incompatibili fra loro. Di sicuro, comunque, incompatibili con la religione cattolica.

Tutto questo, tutto insieme, nelle stesse persone. Io non capisco.

Shevek

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domenica 26 aprile 2009

"...dimmerda!"

"Bastardi romeni dimmerda!". Il mio vicino è categorico. "Perché?", gli chiedo. Mi squadra, fra il perplesso e l'incazzato. "Come perché?". "Perché romeni dimmerda?", insisto. "Cazzo, perché sono tutti delinquenti! Vengono qua e ci derubano, ci accoltellano, ci stuprano le donne... ma ti rendi conto?". D'accordo, mi rendo conto. Ho capito. Cedo la posizione. Non c'è da discutere. Capacissimo di aggredirmi, questo campione dell'italica civiltà. Lo lascio al suo mugugnare, mi allontano e rifletto.

Che cosa sai tu? Sai quanto sperimenti in prima persona o ti viene riferito da una fonte attendibile. Per esempio, il muro del palazzo di fronte è bianco. Toh: è lì, lo vedi, è bianco, lo sai. Se non sei un epistemologo, non stai a questionarci su. Inoltre tua cugina in Sicilia s'è sposata. Non ti ha invitato (che culo!), ma la zia è andata al matrimonio e ti ha riferito della cerimonia in chiesa e del pranzo con 372 invitati (più una decina di imboscati). Tu non c'eri, non hai assistito in prima persona, ma la fonte è affidabile. D'altronde quali motivi avrebbe la zia per mentirti? Sicché ti fidi. Tu però sai anche altro: tua cugina è un po' zoccola, ha tradito parecchie volte il futuro marito e, anche se davanti a Dio vestita di bianco gli ha giurato amore eterno, non perderà il vizietto. Questo tua zia lo ignora. Tu invece lo sai perché te l'hanno riferito amici comuni. Di nuovo: fonte affidabile, quindi fiducia. Il matrimonio e i facili costumi della cuginetta sono fatti compresi nel tuo personale orizzonte degli eventi: toccano te o i tuoi amici e parenti. Sulla base di queste informazioni tu giudichi la realtà: l'educazione un po' bigotta impartita dalla zia alla figliola, concludi, non è stata molto efficace nel moderarne la libido.

Poi, fuori dal tuo microscopico mondo di affetti e amicizie, c'è tutto il resto. Gli incidenti stradali nel paese vicino, gli attentati in città lontane, i terremoti in posti sfigati. Ma pure la nascita del primogenito reale, il viaggio all'estero del capo di Stato, il toccante discorso del Pontefice. Esistono perché te li raccontano i giornali e i tiggì. E ti fidi. Ti fidi?

La realtà non esiste. Esiste solo la tua conoscenza della realtà. Se qualcosa non la conosci, allora non esiste. Pensaci: di fatto, è così. Tua zia considera sua figlia una santa ragazza timorata di Dio e tanto tanto innamorata del marito. Dal suo punto di vista, la realtà è quella: le corna in famiglia non ci sono. Su scala più ampia, nel mondo fuori dalla tua esperienza e dalla tua conoscenza dirette, se i mezzi di comunicazione non ti informano su un fatto... esso non esiste, non c'è. Certo, esiste per chi ne è toccato di persona. Ma per te no. E il tuo giudizio sul mondo dipende solo da quanto sai tu, non da quanto sanno gli altri.

Due romeni stuprano una ragazzina in un bosco. Il tiggì della sera apre con la notizia. Non mente: il fatto è reale. Tu sei sconvolto per la brutalità del crimine. Il tiggì aggiunge: "In poche settimane, è il terzo caso di stupro commesso da romeni". Tu cominci a schiumare di rabbia. Nasce in te un moto di ribellione. Quasi un desiderio di vendetta. Non indagherò qui sulla legittimità di questa tua reazione. Più avanti, forse. Per ora la osservo soltanto. Domani sera un altro tiggì su un altro canale insisterà sulla provenienza degli stupratori. Sono romeni, capito? Ro-me-ni. Il ministro, al microfono, è esplicito e risoluto: "C'è un'emergenza criminalità!". "Diamine, è vero!", rifletti. "Guarda quante orribili notizie ci raccontano. Non si può più stare sicuri con questi immigrati!". Il mio vicino aggiungerebbe "...dimmerda!", ma tu ancora non sei arrivato fin lì. Sei sulla strada buona, però.

Adesso esci di casa. Gli amici ti aspettano al bar. A un incrocio trovi due militari accanto a una camionetta grigioverde. Fermano le persone e chiedono loro i documenti. Anche a te. Dapprima sei perplesso, ma poi ricordi: il governo, per far fronte all'emergenza criminalità, ha dispiegato migliaia di soldati nelle grandi città. Guardi i due giovani armati, comprendi, ti senti rassicurato, sorridi. Mostri la carta d'identità, perché tu sei una persona per bene. Perché tu hai la coscienza pulita. Non sei un immigrato clandestino o un romeno stupratore (sì, sì, "...dimmerda!": su, dai, ci sei quasi). Per la verità, le strade cittadine presidiate dai militari ti creano un certo déjà vu... dov'era?... mmm... forse scene di vita quotidiana di una dittatura sudamericana? E non è tanto bello. Anzi, è perfino un po' inquietante. Ma importa? Respingi il pensiero, perché bisogna fare qualcosa contro questa emergenza criminalità di cui parlano tutti i tiggì. Ci vuole più sicurezza, ecco. Con 'sti cazzo di romeni stupratori, poi... Al bar un conoscente ti riferisce lo scippo della pensione alla nonna. "L'era un negher, capisci?". E' fatta: ci sei anche tu. "...dimmerda!", concludi. Appunto.

Che cosa ti manca? Tutto il resto. L'informazione nascosta dai tiggì. Di solito qualche cifra. La grande maggioranza degli stupri in Italia è commessa da italiani. E una percentuale significativa avviene in famiglia, non nei boschi. D'altronde l'Italia è uno dei Paesi più sicuri del mondo. Fra i suoi 60 milioni di abitanti si verificano 600 omicidi all'anno. Come a Los Angeles, per dire. Ma Los Angeles ha 4 milioni di residenti. Nel 1862 i registri del Regno d'Italia contavano 623 vittime di omicidio. Quindi stiamo messi come allora? No, stiamo messi meglio: nel 1862 c'erano 20 milioni di italiani. Come dici? "Ma non ci sono solo gli omicidi!". Hai ragione. Vogliamo parlare delle aggressioni o delle minacce? Ecco qua: in Italia 8 denunce ogni 1.000 abitanti. Sono tante? In Francia sono 22, in Germania 27, in Norvegia 29 e in Inghilterra e nel Galles addirittura 58.

Tutto questo i tiggì non te lo dicono. Ti raccontano però, in apertura dell'edizione serale, dei due stupratori romeni. Attento, eh! Ro-me-ni, chiaro? Un altro stupratore aveva aggredito una badante filippina la settimana precedente. Ma era italiano, perciò era finito fra le ultime notizie dell'edizione di mezzogiorno del tiggì. E tu, in pausa pranzo, ne avevi sentito parlare distrattamente. Stasera, invece, sollecitati dal brutale stupro dei due romeni, i tiggì danno la parola al ministro per denunciare la terribile "emergenza criminalità" provocata dagli immigrati e comunicare ai telespettatori l'arrivo dei soldati: gente esperta, veterani delle cosiddette "missioni di pace". Il ministro dimentica un particolare: le regole di ingaggio durante le missioni di pace (in territori di fatto in guerra) sono un po' diverse dalle procedure delle forze dell'ordine. E i veterani hanno il grilletto facile. Ma non importa. Importano solo l'ordine e la sicurezza. E i militari servono, diamine! Il giornalista sorride, annuisce, regge il microfono e non chiede come mai servano tutti questi soldati, considerando i 559 poliziotti ogni 100 mila abitanti in Italia, mentre nell'Unione Europea la media è di 329 agenti. Lui sa ma non chiede, e a te quella domanda non viene in mente, perché neppure sai. Così come non percepisci l'incoerenza nell'azione del governo: con una mano manda i militari per le strade e con l'altra taglia i finanziamenti alle forze dell'ordine, in difficoltà perfino nel fare il pieno alle auto di servizio. Macché: tu di quei tagli non sai nulla. I tiggì non te ne hanno parlato, dunque i tagli non esistono.

Un'altra cosa i tiggì non ti hanno riferito: ogni anno in Italia ci sono 1.300 morti sul lavoro. Il doppio degli omicidi. Stupito? Eh, già. Il problema diventa attuale solo quando alcuni disgraziati muoiono bruciati vivi in una fabbrica. Ma trascorrono poche settimane e l'episodio scivola nel dimenticatoio. Nel frattempo il governo provvede a varare nuove leggi per ammorbidire le norme di sicurezza e ridurre le responsabilità dei datori di lavoro. I giornali e i tiggì tacciono. Perché il vero problema è un altro: è l'emergenza criminalità. E i soldati nelle strade sono molto più urgenti degli ispettori nelle fabbriche, nei cantieri, negli uffici, nelle scuole.

Non c'è bisogno di modificare il passato o il presente. Non serve creare una neolingua o imporre un bispensiero. Basta non raccontare, oppure raccontare in modo funzionale alle proprie esigenze, evidenziando questo e nascondendo quell'altro. E' facile, quando si possiede il controllo dell'informazione... e quindi della realtà. Chi governa i media governa la conoscenza delle persone. E il loro pensiero. E il loro voto.

I colpi di Stato sono obsoleti. Anticaglie del Novecento. E' finita l'epoca degli squadroni della morte, dei desaparecidos, delle torture, della polizia politica. Tutto è assai più semplice. E indolore. Siamo in democrazia, no? La gente può andare a votare. E voterà come il governo vorrà. I cittadini lo prenderanno nel culo e ne saranno compiaciuti e soddisfatti. Se farà un po' male, si potrà sempre dare la colpa a qualche romeno. Ah, dimenticavo: "...dimmerda!".

Shevek

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venerdì 17 aprile 2009

Non sei immorale: sei coglione

Devi crescere. Devi aumentare il fatturato. Devi attirare più turisti. Devi vendere più prodotti. Quest'anno devi guadagnare più dell'anno scorso, e l'anno prossimo più di questo.

Per crescere esistono solo due strategie: ridurre le uscite e incrementare le entrate.

Ridurre le uscite è facile. Fra le molte voci di spesa, una la tagli subito: la manodopera. Che ci vuole? La tecnologia ti aiuta: in quel reparto ieri ci volevano dieci operai e oggi ne bastano cinque. Purtroppo un po' di materiale umano è sempre indispensabile. Ecco allora la prima idea: lavoratori meno esigenti. Anzitutto paghi meno quelli attuali. Come? Precarizzali, così non ti seccano con le loro pretese salariali: "Se non ti piace, puoi accomodarti, ché tanto fuori c'è la fila per lavorare". Contratti a termine, e via andare. Poi, dove non arrivi con la precarizzazione, provvedi con la delocalizzazione. Filippine, Pakistan, India, Cina: la scelta non ti manca. Smantelli le fabbriche e gli uffici dove i lavoratori sono strapagati, sindacalizzati, protetti da sistemi di sicurezza e costosi paracadute sociali, e affidi la produzione di beni e servizi in outsourcing a qualche azienducola dei Paesi emergenti: gente sensibile alla protezione sanitaria, sociale e sindacale perfino meno di te. Un bel risparmio. Così pullulano le tue fabbriche in Cina e i tuoi call center e centri di contabilità in India.

Ma non stai forse dimenticando qualcosa? Ops, è vero: i dipendenti precarizzati o disoccupati rimangono in braghe di tela. Non sarebbe un problema, se non fosse che... proprio loro sono i tuoi potenziali clienti. Chi comprerà i tuoi prodotti e i tuoi servizi? Non certo i morti di fame laggiù, pagati con un pugno di fave dai tuoi schiavisti in outsourcing. Gira e rigira, sempre quassù devi tornare a spacciare la tua mercanzia. Che fare? Purtroppo la delocalizzazione sembra ostacolare la seconda strategia per favorire la crescita, ovvero aumentare le entrate. Sembra soltanto, però, perché tu sei davvero astuto.

Le entrate aumentano se la clientela acquista beni e servizi. Ma la potenziale clientela, ora precarizzata o disoccupata, non ha soldi da spendere. Ecco allora la seconda idea: falli comprare a credito. La pubblicità, da sempre utile, ora ti diventa indispensabile per far passare il messaggio: tutto si può prendere oggi e pagare domani. Basta un bello slogan efficace: "Ritira l'auto adesso, e la prima rata è fra un anno!". Toh, guarda: la mamma dei gonzi è sempre incinta e i suoi figli abboccano a frotte. E acquistano a rate non solo l'auto, ma anche il televisore, il telefonino, le vacanze. Siccome devono comprare e consumare a oltranza (ricorda il mantra: "Bisogna crescere, crescere, crescere!"), non c'è limite alle agevolazioni al credito. Puoi finanziare le loro case al 105 per cento: "Non solo ti do tutti i soldi per comprare la villa, ma in più ci aggiungo una congrua cifra per il mobilio". Così la gente, consumatrice sempre e comunque, ingozzata a forza come le oche in batteria per produrre il foie gras, si indebita per benino.

A questo punto, ecco il colpo di genio finale: quel debito lo impacchetti in prodotti finanziari strampalati e incomprensibili e lo rivendi agli stessi gonzi come investimento sicuro dalle rendite stratosferiche. Non pago di ciò, lo spacci anche agli istituti previdenziali, sicché sgraffigni anche i soldi di chi gonzo non è, ma è stato costretto dallo Stato a risparmiare per la vecchiaia.

Così alla fine scoppia la bolla dei subprime, dei mutui concessi a condizioni favorevoli, troppo favorevoli, a chi non poteva permetterseli. Idioti loro, è chiaro, ma... adesso è facile prendersela con quei poveri pezzenti che si sono indebitati fino alle orecchie per comprarsi la villa e poi, incapaci di pagare le rate, sono falliti in massa e hanno trascinato con sé l'economia di tutto l'impero. E' facile, sì, però bisognerebbe prima chiedersi due cose. Sono pezzenti, ma... anzitutto chi li ha resi pezzenti? E poi... chi ha suscitato in loro la convinzione di potersi permettere, anzi di doversi permettere una villa per potersi sentire qualcuno?

Riassumo. Per risparmiare, precarizzi o licenzi e quindi impoverisci i potenziali clienti. Che però poi, per aumentare il fatturato, induci a consumare a forza di debiti. Infine quegli stessi debiti glieli rifili come investimento. Una vera alzata d'ingegno.

Potrei biasimarti per la tua insensibilità sociale, per la tua perdita del senso di solidarietà umana, per il tuo disinteresse nei riguardi delle disgrazie altrui. Ma non lo farò.

Perché tu non sei banalmente immorale: sei coglione.

La tua plutocratica sicumera si fonda su un dogma irrazionale e pericoloso: il dogma della crescita a tutti i costi, sempre e a oltranza.

Devi crescere sempre. Ma non basta: anche la tua crescita deve crescere. Se la crescita rallenta, sei nei guai: "Ragazzi, l'anno scorso siamo cresciuti del 3 per cento e quest'anno solo del 2! E' una tragedia!". Insomma, non solo la derivata prima dev'essere positiva, ma anche la seconda. Ma a spese di chi? O di che cosa? E fino a che punto?

Una crescita infinita non è un problema se il sistema è aperto. In poche parole, se ti circonda un ambiente dal quale puoi pescare a piacimento risorse e materie prime, e nel quale puoi scaraventare a volontà rifiuti e porcherie, allora puoi crescere senza limiti. Purtroppo, però, la Terra è un sistema chiuso. Più di tanto non la puoi spremere. E non può contenere scarti, scorie, schifezze ad libitum. Ergo, oltre un certo limite non potrai andare.

Un esempio? I turisti. Lo so bene: tu godi come un mandrillo in calore quando arrivano in massa nel tuo albergo o nel tuo ristorante. Meglio ancora se sono più dell'anno scorso. E poi ancora di più. "Ragazzi, abbiamo il 3 per cento in più di pernottamenti!". D'accordo... e poi? Quanti turisti vuoi arrivare ad avere, a forza di più 2 e più 3 e poi più 4 per cento? Centinaia di migliaia? Milioni? Quanti ristoranti e quanti alberghi e quante case di vacanza vuoi costruire per rifocillare e ospitare questa mandria? Dove li metterai? Alla fine, per accogliere i turisti, sarai costretto a cementificare tutto. Ridurrai il panorama uno schifo e alla fine nessuno verrà più. Sei felice?

Come dici? "Da sempre le cose stanno così". Hai ragione: da sempre sussiste il dogma della crescita. Perché non è mai andato tutto a catafascio ben prima di adesso? Le ragioni sono tre.

Anzitutto prima, per molto tempo, il sistema poteva essere considerato, a tutti gli effetti pratici, aperto. Il vasto mondo era in gran parte inesplorato. Dunque per allargarti ti bastava attraversare l'Atlantico, accoppare un po' di amerindi e fregar loro le risorse naturali. Ti serviva forza lavoro? Toh, guarda: c'era lì l'Africa, piena di manodopera schiavizzabile, quindi a costo zero. Oggi il giochetto non funziona più, perché non c'è più un francobollo di terra che non sia stato sfruttato e/o inquinato. Dove scappi, allora? Quali nuovi mercati colonizzi? In quale buco remoto vai a scaraventare le tue scorie?

Inoltre non è vero che prima non è mai andato tutto a catafascio. Come la mettiamo con le crisi cicliche, così inevitabili da essere ormai considerate connaturate al capitalismo? E su... e giù... e su... e giù... e su... e ogni volta che vai giù lasci sul terreno milioni di posti di lavoro e capitali immensi. Dopodiché ricominci a crescere. Eh, tu sì che sei scaltro.

Così scaltro che hai perfino escogitato la terza soluzione al problema della crescita infinita, ossia la madre di tutti i catafasci possibili e immaginabili: una bella guerra purificatrice. Non ci vuole molto: quattro, cinque, massimo sei anni di macelleria su vasta scala. Crollo totale di ogni produzione, dall'agricoltura ai servizi passando per l'industria (salvo quella militare, eh!). Milioni di morti, nel XX secolo addirittura decine di milioni. Alla fine, quando hai spianato per bene la qualità della vita delle masse rincitrullite con l'ideale di Patria, quando hai fatto un po' di spazio per un nuovo aumento demografico e per un nuovo boom economico, puoi riprendere a crescere. Più pimpante di prima. Purtroppo ora anche questo trucco te lo puoi scordare. Nell'ultimo mezzo secolo hai continuato a gestire le tue guerricciole per interposta persona fra i morti di fame del Terzo Mondo. Ma quella sana catarsi oggi... nell'Occidente evoluto? Inconcepibile, lo sai bene.

In conclusione, in questo pianeta ormai globalizzato non ti puoi allargare e non puoi resettare il sistema con un'altra guerra mondiale. Eppure vuoi continuare a crescere.

Ma già sento il rimprovero: "Bella forza, Shevek! E' facile dire così. Forse non vorresti anche tu guadagnare sempre di più?".

Chi, io? Io no. Non per forza, almeno. Certo, se qualcuno mi regala 3.000 euro al mese così, senza far niente, mica ci sputo sopra. Ma se per quei 3.000 euro io devo sacrificare gli ultimi scampoli di vita familiare, di lettura, di passeggiate, di riposo... beh, grazie, allora ne faccio volentieri a meno. Tieniti pure i tuoi soldi. E poi per farci che cosa? Per comprare un'ingombrante fuoriserie di lusso che beve come un etilista? Oppure una villa di 30 stanze, così grande che non riuscirei a incrociare mia moglie neppure per caso? O magari altri 10 mila libri che non avrei mai il tempo per leggere, neppure se non facessi altro dalla mattina alla sera?

Ecco, è questo il nocciolo della questione. Io prima ho deciso che cosa voglio. Prima, capisci? Ho stabilito a priori quale benessere desidero. Benessere materiale ma anche spirituale, emotivo, affettivo, culturale. Dopo, solo dopo, ho calcolato quanto devo lavorare e quanto devo guadagnare per arrivare fin lì. Ci sono arrivato e poi mi sono fermato. Punto. Non voglio crescere oltre. Sto bene come sto.

Come dici? Tu no? Ecco perché sei coglione.

Shevek

(mirrorato su Tumblr)