sabato 23 maggio 2009

...e una botta a sinistra

Il privilegio: ecco il nemico storico della sinistra.

Uno sguardo sulla realtà mostra grandi disuguaglianze fra gli esseri umani. C'è chi ha molto e chi ha poco o nulla. C'è chi sfrutta e chi è sfruttato. C'è chi comanda e chi è costretto a ubbidire. Il potere, economico o politico, rappresenta una forma di privilegio. E da sempre chi si definisce di sinistra ha a cuore il destino di chi privilegiato non è. Ecco allora le lotte per abbattere i privilegi. Ecco le rivoluzioni, o almeno le riforme. Ecco gli scontri sindacali per migliori condizioni salariali e di lavoro. E' questo il progresso: l'evoluzione verso una società più giusta, nella quale si riconosca la sostanziale uguaglianza fra gli esseri umani, gli stessi diritti indipendentemente dall' appartenenza etnica, dalle inclinazioni sessuali, dalle idee politiche, dalle convinzioni religiose. Nessuno dev'essere discriminato per questi motivi. E, per gli stessi motivi, nessuno dev'essere privilegiato.

La lotta comincia in tempi remoti. Durante la Rivoluzione Francese si lottava contro i privilegi del Primo e del Secondo Stato. E le rivoluzioni dei due secoli successivi furono fatte in nome dei "dannati della terra", degli ultimi, dei più offesi, vilipesi, sfruttati. Dove sono oggi? Non li vediamo più. La sinistra dei Paesi dell'Occidente avanzato ha sconfitto la povertà e lo sfruttamento. Che però non sono scomparsi, ma si sono solo trasferiti altrove. I "dannati della terra" oggi sono nelle favelas sudamericane, nelle fabbriche cinesi, pakistane e filippine, nelle campagne africane. Una parte della sinistra combatte per loro, in nome di "un altro mondo possibile". Un'altra parte continua a guardarsi in giro un po' spaesata e cerca le vittime del privilegio di oggi. E le trova. O, meglio, sembra trovarle.

Una carovana di nomadi si installa su un terreno privato. Al sopraggiungere della polizia rifiuta di andarsene. Alcuni nomadi si intrufolano nelle case e negli appartamenti di un paese vicino, rubacchiando qua e là. La carovana se ne va solo dopo qualche giorno, lasciando il terreno in condizioni pietose. Gli abitanti del paese si dichiarano stufi e dei nomadi non vogliono mai più sentir parlare. Voci da sinistra: "Razzisti!".

Un collettivo di giovani occupa abusivamente uno stabile privato e organizza un centro sociale, le cui attività spaziano dal teatro sperimentale ai concerti di gruppi underground. Queste manifestazioni, realizzate in orario notturno, provocano un viavai fino alle ore piccole. Inizia lo spaccio di droghe leggere sui marciapiedi di fronte al centro sociale. Potenti casse assordano gli abitanti del quartiere. I vicini chiamano la polizia. Le autorità ipotizzano uno sgombero con la forza. Voci da sinistra: "E' una censura delle istanze giovanili!".

Un impiegato in un'azienda brilla per le sue continue assenze, ogni volta giustificate con motivi quanto meno discutibili. Anche quando c'è, lavora poco e male. La direzione decide di licenziarlo. Voci da sinistra: "E' un sopruso!". Il sindacato scatena un processo. L'azienda è costretta a reintegrare l'impiegato lavativo.

Che cos'è il privilegio? E' il diritto di fare qualcosa negato ad altri. Io non posso campeggiare su un terreno privato: se lo faccio, il proprietario chiama la polizia e mi fa sloggiare. Non posso neppure installarmi nelle case altrui, né spacciare droga per strada, né assordare il vicinato con la mia musica al massimo volume: se lo faccio, la polizia mi caccia, mi arresta, mi zittisce. Né posso permettermi di battere la fiacca: se lo faccio, la mia coscienza (forse la peggiore delle polizie) mi condanna e mi rimprovera. Ad altri, invece, questo è permesso senza portare le conseguenze delle proprie azioni. Non è anche questo un privilegio?

"L'uguaglianza, Shevek, è un valore irrinunciabile": così mi dicono da sinistra. Annuisco convinto. Poi però assisto ad abusi tollerati per alcuni e sanzionati per altri, con la benedizione di quella stessa sinistra. Perché?

Non capisco. Difendere il nomade ladro, il giovane casinista, l'impiegato fannullone non significa difendere il privilegio? Dov'è la solidarietà con gli oppressi, ossia i cittadini vittime dei furti, gli abitanti del quartiere assordati, i dipendenti impegnati?

Shevek

P.S.: Sul balcone di un appartamento vicino al centro sociale abusivo è apparso uno striscione: "Perché voglio dormire sono fascista?".

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sabato 16 maggio 2009

Una botta a destra...

La disuguaglianza, mi si spiega da destra, nasce dal merito. Chi merita di più ha di più. Sorvoliamo sull'incoerenza del diritto ereditario e prendiamo per buona questa filosofia. Sembra un ragionevole principio di giustizia. Il padrone della fabbrica guadagna più dei suoi operai e dei suoi impiegati, e quindi gode di una vita materialmente migliore, perché merita più di loro. Per la quantità del suo lavoro? Pare di no. Spesso anzi il padrone lavora meno. Per la qualità, invece. Il suo lavoro è più qualificato. E anche per il rischio. Il padrone della fabbrica guadagna di più perché si assume, di tasca propria, il rischio di fallire. Il suo guadagno non è garantito, ma dipende da come lui, con le proprie capacità, manderà avanti la fabbrica: tanti soldi ma poca sicurezza. L'operaio e l'impiegato, invece, hanno la certezza di avere una cifra fissa in busta paga a fine mese, comunque vadano gli affari del padrone. L'operaio e l'impiegato guadagnano meno ma rischiano meno: pochi soldi ma tanta sicurezza. Chiamiamolo "principio di responsabilità".

Questo in teoria. Scendiamo ora nei meandri della realtà. Il padrone spesso, di fatto, non esiste più. Molte imprese ormai hanno una proprietà frammentata nelle mani di una miriade di azionisti. Certo, di solito ce n'è qualcuno con quote azionarie più ampie, magari maggioritarie. Spesso l'azionista di maggioranza è l'erede della dinastia familiare fondatrice dell'impresa. Costui fa il bello e il brutto tempo in azienda. Poi ci sono i manager. Strapagati, con stipendi e rendite migliaia di volte superiori a quelli dei propri dipendenti. "E' ovvio, Shevek: hanno una grande responsabilità. Dalle loro decisioni dipendono le sorti dell'azienda". Si può disquisire sulla legittimità di questa disuguaglianza materiale, ma il ragionamento, in teoria, fila. Del resto, mi si ricorda sempre, appiattire gli stipendi è controproducente: "Pensa al comunismo, pensa a quelle economie fallimentari in cui tutti, dal dirigente all'ultimo operaio, guadagnavano le stesse cifre. Quale stimolo può indurre il manager a prendere decisioni difficili, se guadagna quanto un impiegato qualsiasi?". Giusto. Infatti il comunismo (quel comunismo, almeno) è morto e sepolto. Trionfa al suo posto un sano liberismo, nel quale viene premiata la responsabilità. Davvero?

Guardiamoci in giro. Vediamo aziende miseramente fallite perché amministrate male, mentre i loro manager prendono buonuscite milionarie. Scusate, ma il merito dov'è? Perché strapagarli se hanno fatto male il loro lavoro? Oppure vediamo aziende floride, in pieno attivo, impegnate a licenziare centinaia, magari migliaia di persone (si chiamano "ristrutturazioni"), per trasferirsi altrove, dove la manodopera costa meno (viene definita "delocalizzazione"). Su chi ricade la responsabilità di queste scelte? Sui manager, sui membri del consiglio d'amministrazione, sui grandi azionisti. E chi si fa carico delle conseguenze? I dipendenti: operai e impiegati di fatto non hanno alcuna certezza, subiscono gli effetti di scelte altrui, sono impotenti. Pochi soldi e poca sicurezza per chi sta in fondo alla gerarchia.

Non capisco. Dov'è finito, in questo mondo liberale e liberista, il "principio di responsabilità"?

Shevek

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sabato 9 maggio 2009

Disuguaglianze

Due auto nel parcheggio: una Mercedes e una Volkswagen Polo. Una vettura di lusso e un'utilitaria. Due auto, due proprietari: una signora benestante e un apprendista sottopagato. Nella Mercedes la signora gode del silenzio e dell'isolamento, della frescura dell'aria condizionata, di un hi-fi potente, di un navigatore che la porta dove lei desidera, di un motore poderoso e sensibile al tocco più delicato del piede. Nella Polo l'apprendista non ha neppure gli alzacristalli elettrici, perché è un vecchio modello di quarta mano. Le loro abitazioni riflettono le stesse disuguaglianze: una villa lussuosa con parco e piscina, e un modesto bilocale condiviso con la madre in un palazzone di periferia. Spingendo lo sguardo un po' più lontano, immaginiamo i pasciuti plutocrati ospiti permanenti di un albergo a cinque stelle mentre prendono il sole sul bordo della piscina, e ancora più lontano le ragazzine delle favelas sudamericane costrette a prostituirsi per mangiare. Perché?

Tutti, ricchi e poveri, hanno 46 cromosomi, alcune decine di migliaia di geni. Tutti sono nati da uomo e da donna. Tutti aspirano alla felicità. Che non coincide con il benessere materiale, ma di cui certo il benessere materiale (ipocrita chi lo nega) contribuisce a far sentire meno la mancanza. Eppure fra tutti questi uomini e queste donne, fra questi 7 miliardi di abitanti del terzo pianeta del Sole, sussistono abissi di disuguaglianza materiale. Perché?

Mi si risponde che la disuguaglianza è innata. Che proprio quei 46 cromosomi e quelle migliaia di geni rendono gli uomini e le donne diversi, e quindi diversi i loro destini. In sostanza, mi pare di capire, se qualcuno è più attivo e volonteroso è giusto che nella vita goda di un successo maggiore, sotto forma di benessere materiale. Sembra convincente, a prima vista. Ecco la ragione delle disuguaglianze, fondate quindi sulla libera volontà individuale: si è diversi perché si vuole essere diversi.

Ma si vuole... sempre? L'impegno e la volontà sono sempre il fattore determinante? Non sono, piuttosto, basati sulle qualità intrinseche? Insomma, ha successo chi ha i mezzi, gli strumenti offerti dalla natura per mettere a frutto l'impegno. Chi è dotato di un talento avrà più possibilità di arricchirsi di chi invece ne è privo. Ma allora la differenza va cercata nella fortuna. Non c'è merito nel nascere dotati. E dunque, se non c'è merito, perché si dovrebbe goderne di più? Mi sento replicare che ognuno ha dei doni, diversi da quelli di tutti gli altri. Che un uomo povero è solo un uomo rotondo in un buco quadrato, che non ha voluto o non ha potuto seguire la propria vera vocazione, grazie alla quale avrebbe raggiunto l'eccellenza e sarebbe diventato ricco. La società deve migliorare per arrivare a offrire a chiunque, davvero a chiunque, la possibilità di trovare la propria strada per eccellere. Elargendo a ciascuno le stesse possibilità di partenza. "Abbi pazienza, Shevek: ci stiamo lavorando". In teoria funziona. Ma nei fatti...

Nei fatti, la proprietaria della Mercedes è una nullafacente che vive di rendita grazie agli appartamenti ereditati dal padre, un avvocato di successo che, partendo dal nulla, era diventato un principe del foro, si era arricchito, aveva investito oculatamente i propri risparmi in immobili e, alla propria morte, aveva lasciato tutto alla figlia. E lei ora, senza arte né parte, senza alcun impegno personale, si gode un'esistenza dorata. Il padre ha sgobbato duro, ha dimostrato di avere capacità e volontà, e certo la ricchezza se l'è (nell'ottica del merito individuale) conquistata. Ma la figlia? Lei ha avuto solo la smodata fortuna di essere la prole di un ricco. Non c'è merito in questo. E nei fatti non c'è colpa nell'apprendista, figlio di una ragazza madre, una working poor che a malapena riesce a mettere assieme il pranzo con la cena e non ha potuto farlo studiare. Peccato, però, perché il ragazzo è molto dotato e avrebbe voluto (e potuto, in teoria) diventare un ottimo chirurgo. Vedi un po' la sfortuna... Analogo discorso per il ciccione sul bordo della piscina, rampollo per caso di una famiglia di ricchi possidenti, e per la ragazzina delle favelas, progenie fortuita della povertà e della degradazione.

Se si scoprono discriminazioni, tutti esprimono sdegno e levano alte proteste. Per esempio, laggiù i neri non votano. Orrore e raccapriccio! Perché? "Ma sei scemo, Shevek? Perché il colore della pelle non è una colpa, ma solo una circostanza fortuita!". Altrove gli omosessuali sono perseguitati e imprigionati. Indignazione e rabbia! Perché? "Ma come perché? Essere omosessuali non è una scelta! E' una propensione naturale, è un modo di essere indipendente dalla volontà!". E che dire di quei posti nei quali le donne sono costrette al velo? Condanna e riprovazione! Perché? "Di nuovo, perché non si determina il proprio genere!". Capisco. Va bene. Non si decide di nascere ebrei o con gli occhi a mandorla, così come non si sceglie di essere omosessuali o biondi o alti. Discriminare una persona per una sua caratteristica casuale, favorendola o sfavorendola per questo, è sbagliato. Vogliamo dire immorale? Diciamo immorale. Ebbene, è curioso constatare come, laddove la discriminazione etnica o sessuale o di genere è inaccettabile, la discriminazione economica non suscita alcuno stupore. Il figlio del ricco è ricco, sebbene la sua nascita sia stata casuale e immeritevole quanto il colore della sua pelle.

Nel 1680 venne pubblicato Patriarcha, or the Natural Power of Kings, un'opera postuma di Sir Robert Filmer. L'autore giustifica il diritto divino dei re sulla base del principio ereditario. I suoi argomenti sarebbero stati demoliti pochi anni dopo da John Locke, com'è noto. Oggi li troviamo ridicoli. Le poche dinastie regnanti nei moderni regimi monarchici ma democratici hanno un potere poco più che simbolico. Ma ecco quanto scrive Bertrand Russell nella sua Storia della filosofia occidentale: "E' curioso che il rifiuto del principio ereditario in politica non abbia avuto quasi alcun effetto nel campo economico nei paesi democratici. (...) Ci sembra ancora naturale che un uomo lasci la sua proprietà ai figli; accettiamo cioè il principio ereditario per quel che riguarda il potere economico, mentre lo respingiamo nei riguardi del potere politico. Le dinastie politiche sono scomparse, ma le dinastie economiche sopravvivono. Non intendo ora prendere posizione pro o contro questo diverso trattamento delle due forme di potere. Sto semplicemente mettendo in luce questa realtà, e il fatto che la maggior parte degli uomini non se ne sia accorta. Riflettete a quanto ci sembra naturale che il potere sulla vita degli altri, derivante da una grande ricchezza, debba essere ereditario, e capirete meglio come uomini del tipo di Sir Robert Filmer potessero sostenere lo stesso principio nei riguardi del potere dei re; (...)".

Non capisco. Vedo che gran parte delle disuguaglianze materiali trova una giustificazione nel puro caso. In barba alle massime dichiarazioni d'intenti sull'uguaglianza di opportunità fra gli esseri umani. Perché?

Shevek

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domenica 3 maggio 2009

Una domenica, dopo la Messa

Il sole negli occhi. Mi godo la calura precoce di questa primavera che anticipa l'estate. Una tranquilla domenica, sul sagrato della chiesa parrocchiale. Per curiosità, stamattina sono stato a Messa. E ora mi ritrovo, abbandonato su questa panchina, a osservare i bambini più grandicelli che corrono mentre le loro mamme chiacchierano spingendo le carrozzine dei fratellini più piccoli.

Si avvicina una... una signora, direi, perché definirla "ragazza" sarebbe ormai fuori luogo. Sulla trentina, in abito sportivo. Anche lei con la sua carrozzina. Dentro c'è un fagottino con un pagliaccetto azzurro. Dorme tranquillo. La osservo di sbieco, senza farmi notare. L'avevo già notata prima, in chiesa, mentre mi aggiravo fra i banchi. Dopo la Comunione si era inginocchiata con intenzione, assorta. Ora si siede sulla mia panchina e si guarda in giro. Poi si volta verso di me e...

"Bella giornata, vero?".

Si vede che ha voglia di chiacchierare. Io no, ma non voglio essere scortese. Invece che un grugnito, emetto un educato "Già". La signora non si dà per vinta: "E' solo?".

Ma tutte a me devono capitare le persone bisognose di un contatto umano? Reitero il "Già" di prima, sperando che stavolta intuisca.

"E' stato a Messa?". Niente: è proprio di coccio.

"Già", insisto. Penserà che il mio lessico si limiti a quest'unico avverbio. Pazienza.

"Anch'io. Stamattina mi è proprio piaciuta la predica di don Sandro".

Ho capito: non me la scrosto. Però magari riesco a cavarne qualche informazione interessante. "Davvero?", chiedo.

"Sì, don Sandro è un prete così moderno... Da quando c'è lui vengo a Messa molto più volentieri".

Chissà perché, a me i discorsi di don Sandro sono sembrati un coacervo di banalità buoniste. Ma voglio lasciarla chiacchierare, così esco dal mio mutismo e mi presento: "Mi chiamo Shevek".

Spero che, nella sua ansia di attaccare bottone, lei non si metta a far domande. Macché: "Io mi chiamo Franca. Le dicevo che...". Per fortuna è troppo egocentrica per essere interessata a qualcosa che non sia se stessa. Meglio così.

"...che don Sandro è davvero un uomo speciale. Aperto, solare, tollerante. Da lui mi sento capita. Così ho deciso che sarà lui a sposarmi".

Trasecolo: la signora con prole non è coniugata? "Scusi... sposarsi?".

"Sì, certo. Il mio compagno e io, il papà di Matilde, conviviamo da tre anni. Ma ora abbiamo deciso di sposarci in chiesa. E stiamo seguendo il corso che don Sandro tiene ai fidanzati per la preparazione al matrimonio".

Inarco un sopracciglio. Questa donna non è caduta da cavallo sulla strada di Damasco: è cattolica da un pezzo. Ma ciò non le ha impedito di convivere e avere una figlia senza sposarsi in chiesa. Adesso il prete, sebbene lei viva tuttora "nel peccato", la accoglie a Messa, le lascia prendere la Comunione, le fa seguire un corso di preparazione al matrimonio.

Non dico nulla. Tanto lei va avanti a ruota libera. "Invece il prete della chiesa in cui andavo prima, sebbene fosse anche più giovane di don Sandro, era un tale rompi... Non la finiva più di ricordarmi che convivere è sbagliato, che un figlio fuori dal matrimonio dà scandalo... e un giorno si è perfino rifiutato di darmi la Comunione. Una vergogna, davanti a tutti! Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ero stufa e avevo sentito parlare bene di don Sandro, così ho cominciato a frequentare questa parrocchia". Tace. Sembra che si aspetti una replica da parte mia. Quasi quasi la provoco.

"Lei è cattolica?". Vediamo se mi segue...

Si stupisce: le sembra scontato. "Ma che domanda è? E' ovvio!".

Bene, bene, bene... "Quindi lei accetta i dogmi della religione cattolica. E dovrebbe seguire i precetti che la Chiesa cattolica prescrive".

Ha lo sguardo vacuo di chi non capisce. "Sì, ma... in che senso, scusi? Cioè... che cosa vuol dire?".

Parto con il primo affondo: "Vuol dire per esempio che lei stamattina, prendendo la Comunione, si è nutrita di Dio".

Una ruga le si forma fra le sopracciglia.

"Lei sa che l'ostia consacrata è un pezzo di Dio, vero?", proseguo.

"Sì, questo è quello che dicono i preti".

"No, Franca, questo è ciò che è vero per ogni cattolico. E' un fatto chiamato transustanziazione".

"Transu... che?".

Ecco, qui ti volevo. "Vuol dire che quel pezzo di pane che lei ha mangiato è un pezzo di Dio, non un semplice simbolo".

Mi guarda come se fossi un integralista. "Senta, scusi, ma non è che si può prendere per oro colato tutto quello che dicono i preti, eh!".

"Ah, no? Lei sa che per queste cose nei secoli passati la gente scatenava guerre, persecuzioni e roghi? Sono questioni importanti, di sostanza. Lei è libera di non crederci, ma in tal caso lei non è cattolica. Certo, magari la sua famiglia è cattolica e lei è stata educata in questa religione e ancora va in chiesa a prendere la Comunione, ma in fondo... se lei non accetta questi dogmi, lei non è cattolica. Sarà qualcosa di altrettanto dignitoso, magari sarà evangelica, ma non è cattolica. Che cos'è quello?".

Distratta dalla mia domanda inattesa, Franca segue la direzione del mio dito e si osserva il medaglione appeso al collo. "Una spirale celtica, perché?".

Ho inquadrato il personaggio e parto con il secondo affondo: "Che cosa rappresenta?".

"Me l'ha regalata il mio maestro di yoga". Si è fatta titubante. Capisce che sta camminando su un terreno minato. Per questo evita di rispondere. Ma, cara mia, con te non ho ancora finito: "Bella! Ma che cosa rappresenta?".

Si sente sotto processo, sente che le sue convinzioni sono messe in discussione, così ha un soprassalto d'orgoglio e mi guarda sprezzante: "Rappresenta l'eterno ritorno. Il mio maestro me l'ha regalata per ricordarmi che tutto torna da dove è venuto. E' una sapienza antichissima, che risale agli antichi Egizi, che l'avevano ricevuta dai buddhisti e che l'hanno trasmessa ai Celti".

Mica male: idee poche ma confuse. Non commento e la lascio proseguire a ruota libera. Tanto ormai s'è scordata di don Sandro, la transustanziazione e la castità prematrimoniale. Adesso è lanciata sulla New Age. Vediamo dove arriva. "Che cosa significa che la spirale rappresenta l'eterno ritorno?", la incalzo.

"Significa, come le ho detto, che tutto torna da dove è venuto. Anche noi: nasciamo, viviamo, moriamo, poi rinasciamo... E' la reincarnazione, no?".

Ecco, anche la metempsicosi, adesso. Non avrei potuto sperare di meglio. Ma dev'essermi sfuggito un commento soprappensiero, perché la sento dire "Metemp... che?".

La cultura di questa genialona è davvero enciclopedica. "Niente, è solo la parola greca che descrive la trasmigrazione in un altro corpo dell’anima dopo la morte", rispondo. E poi aggiungo: "Lei sa che questa convinzione contrasta con la fede cattolica, vero?".

"Ma che c'entra? Uno non può credere un po' in quello che vuole? Mica devo pensare che è vero tutto quello che dicono i preti! Chissà quante balle ci rifilano! Bisogna essere critici, aperti. Bisogna saper prendere quello che di buono e di giusto c'è in ogni religione e...".

"No, Franca", la interrompo, "bisogna avere il coraggio di tirare le conseguenze, di chiamare le cose con il loro nome. E di ammettere che, se si segue una religione-fai-da-te, non si è più cattolici". Poi mi alzo e me ne vado.

E ora penso. Io non sono cristiano e men che meno cattolico. Però non posso fare a meno di prendere atto incuriosito di quello che vedo. E vedo gente davvero strana.

Gente che va a Messa perché così le è stato insegnato a fare nella propria tradizione culturale. Ma che non ha la più pallida idea di ciò che sta davvero facendo.

Gente che si dichiara cattolica e magari va pure a salutare il Papa, quando viene in visita nel suo Paese, sventolando le bandierine colorate e applaudendo e perfino commuovendosi. Ma che non ha la minima intenzione di conformarsi ai precetti che la Chiesa impone.

Gente che si oppone alla possibilità per adulti consenzienti e omosessuali di vivere apertamente e legalmente le proprie relazioni, "perché la famiglia tradizionale è il fondamento della nostra società". Ma che, senza tanti scrupoli, scopa e procrea prima del matrimonio e poi, dopo il matrimonio, tradisce il proprio coniuge, alla fine divorzia e magari si costruisce una nuova famiglia con qualcun altro.

Gente che si dichiara cattolica. Ma che riesce a far convivere credenze e superstizioni provenienti dalle culture più remote, convinzioni spesso incoerenti e incompatibili fra loro. Di sicuro, comunque, incompatibili con la religione cattolica.

Tutto questo, tutto insieme, nelle stesse persone. Io non capisco.

Shevek

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