sabato 24 ottobre 2009

Atomi e bit

Rideva. Mi avevano rubato il cellulare, e lei rideva. "Così impari ad affidarti alla tecnologia. Sei fregato: dove sono ora i tuoi numeri di telefono? E i tuoi appuntamenti? Eh? Dove sono?". E rideva.

Io ho comprato un nuovo cellulare, l'ho sincronizzato col computer, ho recuperato tutti i dati dal mio backup.

Oggi le hanno rubato la borsa. Dentro c'era la sua agenda. Cartacea.

Sono stronzo se rido io?

Shevek

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domenica 18 ottobre 2009

Vacche grasse e vacche magre

Dice: "Mi dispiace". Dice: "Non posso fare diversamente".

Annuisco. Che altro? Il manico del coltello ce l'ha lui. Che poi ha pure ragione.

Dice: "C'è la crisi". Che, non la vedo? M'ha preso per scemo? Ha ragione sì. Dice: "C'è stata una pesante contrazione delle entrate".

Ma è colpa mia? "No", dice, "non c'entra la qualità del tuo lavoro. Né la tua professionalità". Dice: "E' che proprio non posso far altro. Non ci son più soldi". Quindi dice: "Il tuo compenso vien ridotto". Quanto? Dice: "Di un terzo". Ma porc...

Dice: "Sai com'è, son vacche magre. Mica come prima". Prima? Dice: "Prima, ai tempi delle vacche grasse". Scusa? "Già", dice, "quando non c'era la crisi".

Son 18 anni che lavoro per lui. 18 anni, mica cazzi. Dice: "Lo so". E allora, in 18 anni, i miei compensi si son solo ridotti. Fra una crisi e l'altra, ora piglio il 20 per cento del mio compenso iniziale. Ma che storia è? Dice: "Che c'entra?". C'entra sì, ché qua dentro tutti i dipendenti hanno avuto gli aumenti previsti dal contratto collettivo. Mentre io, consulente esterno, 'na sega. Anzi, a marcia indietro. Dice: "Se non ti piace la minestra, la vedi la finestra?". Taccio, ché altrimenti... Dice: "D'altronde, sai com'è, la crisi, le vacche...".

Sai che c'è? M'han proprio scassato la minchia, 'ste vacche. Dice: "Son magre". Grazie, lo so. Ma le vacche grasse ci son mai state? Dice: "Certo". E quando, che non me l'han mai detto? Li ho mai sentiti dire: "Guarda, va di lusso, becchiamo tanti soldi, t'aumento i compensi"? Macché: sempre a pianger miseria.

Le vacche grasse io non le ho mai viste. Mi si mostran le vacche solo quando son magre. 'Ste stronze.

Dice... "Ma vaffanculo", dico io.

Shevek

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domenica 4 ottobre 2009

Il dolore, il mostro e la benzina

L'hanno rispedito a casa. Per motivi di salute: questa è la versione ufficiale. Sai com'è: è un malato terminale, il cancro alla prostata gli lascia poco da vivere. Lasciamogli tirar le cuoia a casa sua. Comprensibile, ma...

...appena arrivato in Libia, Abdelbaset Ali Mohmed Al Megrahi è stato accolto con abbracci, congratulazioni e bandiere al vento. Come un eroe, insomma. E questo non va bene. I familiari dei 270 morti nell'attentato di Lockerbie non hanno apprezzato. Non si capisce quale soddisfazione avrebbero ricavato dalla morte di Al Megrahi in carcere, ma tant'è. D'altronde almeno la festa di bentornato i libici se la potevano risparmiare.

Effetti collaterali: in Inghilterra s'è scatenata la polemica sui veri motivi del rilascio. Infatti le ragioni umanitarie non sarebbero le sole, pare. Forse. Così si dice. Anche il diritto di sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi, concesso alla BP, sembra aver giocato un ruolo. Svendiamo la giustizia per qualche bidone di petrolio. Bello schifo, vero?

Già, già. Tuttavia...

Gheddafi è stato sdoganato. Ostracizzato per anni come il mostro, il mandante di attentati, il fabbricante di armi chimiche, il lanciatore di missili sull'Europa, oggi è un capo di Stato accolto con tutti gli onori. Erige la tenda nei parchi europei, viene ascoltato all'ONU, si gode lo spettacolo delle Frecce Tricolori. I duelli aerei sul Mediterraneo non se li ricorda più nessuno. Perché adesso Gheddafi è un amico dei governi occidentali. Certo, la festa ad Al Megrahi è stata di cattivo gusto, ma non è proprio il caso di mettere in crisi gli scambi commerciali per una simile quisquilia formale.

Due miliardi di dollari: questo è stato il prezzo. Due miliardi di risarcimento ai parenti delle vittime dell'attentato di Lockerbie. Due miliardi scuciti dalla Libia per essere riammessa nel consesso delle nazioni civili. Soldi intascati dagli stessi indignati di oggi. Che nei propri serbatoi continuano a pompare benzina della BP.

Svendiamo il dolore per qualche dollaro e un pieno. Bello schifo, vero?

Shevek

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domenica 27 settembre 2009

La responsabilità del basco rosso

Voce fuori campo: "Il figlio di un eroe italiano". Primo piano del bambino col basco rosso mentre fa il saluto militare. Intorno le più alte cariche dello Stato. Mani istituzionali stringono mani vedovili. Seguono intensi abbracci, e molte lacrime inzuppano veli e grisaglie. Facce dolenti e rabbiose di parà mentre portano a spalla le bare velate dal tricolore. Tutt'intorno bandiere a mezz'asta e cordoglio nazionale. Lunghe code di cittadini per l'estremo saluto ai feretri. In milioni di case, espressioni addolorate davanti al tiggì. Addolorate e intenerite dal bimbo col basco da parà. Addolorate e incazzate per quei terroristi di merda, assassini dei "nostri soldati", anzi dei "nostri ragazzi", come spiega la TV.

Come molti, anche tu hai scelto la carriera militare. L'uso delle armi è previsto, organizzato, programmato. Sei addestrato accuratamente. Scopo: uccidere altri esseri umani. A questo servono le armi, pare. Di solito però il bersaglio non collabora, e a propria volta si arma per ucciderti. Ti stupisci?

Ora sei un professionista. Non solo: sei pure un volontario verso un'area di guerra. "Missione di pace", la chiamano. Guerra o pace? Non importa, perché di fatto sono posti dove si spara e spesso ci scappano i morti. Non è mica un mistero. Eppure tu ci vai, profumatamente pagato. C'è un rischio, manifesto e risaputo, ma tu ci vai. Non è una vacanza al Club Med, ma tu ci vai.

Poi ti sparano davvero. Oppure un'autobomba ti esplode accanto. Succede. D'altronde tu sei lì col mitra e i blindati, e magari questo non garba a qualcuno. Che ti spara e ti ammazza.

Sia chiaro: io certo non ne godo. Non è bello. Per niente. Mi dispiace molto per te e per il tuo bambino col basco da parà. Però una domanda voglio fartela: che ti aspettavi? Era nel conto. O no?

Adesso il Paese ti considera un eroe. "Non meritava un destino così crudele", dicono tutti. "Non è giusto", aggiungono. "Bisogna farla pagare ai colpevoli", concludono.

Io non capisco: qualcuno dovrebbe spiegarmi dove sta, in tutto questo, la presa a carico delle conseguenze delle proprie scelte. "Responsabilità individuale", si chiama. Ecco, dove sta?

Shevek

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sabato 15 agosto 2009

"Per fortuna non ci sono italiani fra le vittime"

Centinaia di morti nel naufragio della nave. O nell'incidente aereo. O nel disastro ferroviario. O nell'attentato terroristico. O nel terremoto. "Per fortuna", tiene a precisare la lettrice del telegiornale, "non ci sono italiani fra le vittime". Ah, meno male. Mi sento più tranquillo. Scusate, ma... chissenefrega?

Non vorrei essere frainteso: il mio non è cinico disinteresse per la sorte di centinaia di persone. Mi sento toccato profondamente e commosso e addolorato. Solo... non riesco a sentirmi più rattristato per la morte di alcuni esseri umani che per quella di altri. Voglio dire: per quale motivo la morte di alcuni cittadini italiani dovrebbe coinvolgermi più della scomparsa di alcuni cittadini marocchini o argentini? Li conoscevo? Certo, se nella sciagura muore mio fratello o mia cugina o un mio amico o almeno un mio conoscente, io sono toccato direttamente. Colpito, impressionato. Perfino afflitto e prostrato. E anche se muoiono degli sconosciuti io provo dispiacere, perché sempre mi affligge il pensiero della scomparsa di qualche vita umana. Questo dev'essere chiaro. Ma per quale ragione la morte di Mario Rossi e Luisa Bianchi, rispettivamente di Cagliari e Pistoia, dovrebbe interessarmi più della morte di Mustafa Aziz o di Consuelo Rodriguez, rispettivamente di Marrakech e Buenos Aires? Non sapevo nulla di Mustafa e Consuelo ma neppure di Mario e Luisa. Con questi ultimi, a parte la lingua e qualche addentellato culturale, non avevo nulla in comune. E allora... forse certi morti sconosciuti hanno da essermi cari più di altri solo per il loro passaporto?

Eppure le cronache televisive sono piene di resoconti strappalacrime sulle povere vittime italiane. Le troupe televisive assediano le case dei parenti di Mario e Luisa per estorcere un commento, per zoomare su una lacrima, per frugare nei soggiorni e nelle camere da letto, per scovare storie banali nel passato delle vittime. Delle storie di Mustafa e Consuelo, evidentemente, agli italiani non deve importare nulla. Importerà, per qualche assurda ragione, solo ai marocchini e agli argentini, ai quali peraltro non fregherà nulla di Mario e di Luisa. Perché? Eppure sono tutti perfetti sconosciuti.

Lo so: un fatto non è mai una notizia. Diventa tale se possiede alcuni valori-notizia. Lo insegnano nelle scuole di giornalismo: uno dei valori-notizia è la vicinanza geografica o culturale dell'evento. Siccome la gente si impressiona per quanto le accade vicino, bisogna dare al pubblico quello che lui vuole nella forma che lui vuole. Ciò non toglie, beninteso, che tutto questo sia irrazionale e assurdo.

Chissà come le 40 vittime di un pullman precipitato da un viadotto sono una tragedia nazionale da prima pagina se l'evento accade a Udine, una disgrazia nella pagina di esteri se succede a Oslo e un brevina da poche righe nelle news se si verifica a Teheran. Incomprensibilmente, per un giornalista italiano rapito in Iraq si mobilitano migliaia di persone a Milano, ma per smuovere i cittadini di Madrid ci vuole il rapimento di un reporter spagnolo. Il 7 luglio 2005 di Londra è una comune giornata di Baghdad ma, assurdamente, il risalto giornalistico è diverso in modo abissale. Eppure nessuno se ne accorge.

Io non capisco. Perché?

Shevek

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sabato 8 agosto 2009

Fenomenologia sociale della gnocca

Contesto: il reparto alimentari del supermercato. Personaggi: la solita folla del sabato pomeriggio. Elemento di disturbo: la gnocca. Oggettivamente è gnocca: ha un fisico mozzafiato. E oggettivamente lo sa e lo mette in mostra: pantaloncini corti che evidenziano le gambe lisce e affusolate, camicetta aderente e scollata che nel contempo scopre l'ombelico. Insomma, poca stoffa e tanta carne all'aria.

Non m'interessa la gnocca. M'interessano gli effetti della gnocca. Che percorre spavalda e a lunghe ed eleganti falcate i corridoi fra gli scaffali. Bizzarra è la reazione umana al transito della gnocca. La reazione maschile, per la precisione. C'è quello che la squadra allupato e diretto, senza pudori. C'è quell'altro che fa lo stesso ma almeno aspetta che la gnocca sia transitata e gli rivolga spalle. C'è poi uno che è in compagnia della moglie impegnata ad asportare scatolame e bottiglie dagli scaffali. Costui manifesta la più totale indifferenza al passaggio della gnocca: non muove un muscolo, non sposta di un grado la direzione di visuale. Ma quando la consorte volta la testa... zac! Parte lo sguardo bieco e bavoso. Appena la moglie si raddrizza, il tizio ricompone tutta la propria indifferenza.

Che c'è di strano? Niente e tutto. Niente perché la gnocca è gnocca, gli ormoni sono ormoni e i richiami sessuali espliciti riscuotono sempre successo. Istinto naturale verso l'accoppiamento, si chiama. La stranezza sta nell'effetto diverso della stessa manifestazione in differenti contesti sociali. La stessa gnocca, con un bikini addosso, su una spiaggia riscuoterebbe poco più di uno sguardo annoiato.

La gnocca è sempre quella. La superficie di carne scoperta è la stessa. Anzi, in spiaggia ce n'è anche di più. Ma al supermercato l'allupamento maschile è assai superiore. Perché?

Shevek

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venerdì 26 giugno 2009

Tifo

E' interista per tradizione di famiglia: "Sono stato tirato su a pane e Inter", spiega. Però vive a Bergamo, non a Milano. Che c'entra l'Inter con Bergamo? Del resto non gli importa più di tanto, perché regolarmente va allo stadio per seguire la sua squadra, quando gioca in casa, e se appena ne ha la possibilità la segue anche in trasferta. Legge regolarmente la Gazzetta e si trova con gli amici al bar per commentare le partite. E' una passione irrefrenabile, la sua. Perché?

"Tu non puoi capire, Shevek", è l'immancabile risposta di ogni tifoso, e poco importa se dell'Inter o del Milan, della Fiorentina o della Juventus. Questo è il tifo: nella migliore delle ipotesi si manifesta con un blando interesse per le prodezze della squadra del cuore e nella peggiore sconfina nell'idolatria con gli altarini e i santini dei calciatori.

Eppure a me sembra tutto un po' assurdo. Per quale motivo dovrei appassionarmi alle prodezze di questa squadra piuttosto che a quelle di un'altra?

Prima possibilità: è la mia squadra, cioè io ne sono il proprietario. Allora non si discute: è il mio giocattolo privato e lo faccio incontrare con i giocattoli di altri ricchi proprietari come me. E' il caso dei Berlusconi e degli Agnelli. Però decisamente non è questa la mia situazione. Né è quella della miriade di tifosi sbavanti ogni domenica negli stadi o davanti alla televisione.

O forse dovrei appassionarmi alle vicende di questa squadra perché è la squadra della mia città? Mi sembra comunque bizzarro. Che ci sia nato o che ci sia arrivato dopo, io abito qui per puro caso. Perché dovrei privilegiare proprio questa squadra? D'altronde spesso i calciatori e l'allenatore e i dirigenti con la mia città non c'entrano nulla: è quasi tutta gente venuta da lontano. Magari neppure spiccicano una parola di italiano. Sono solo mercenari. Sicché oggi il grande campione è il beniamino della tifoseria, e domani, cambiata città e casacca, diventerà il nemico al quale sputare addosso. E poi... il legame residenziale significa forse che se mi trasferissi dovrei cambiare squadra del cuore? Chi lascia Milano per Firenze deve abbandonare anche il Milan o l'Inter per consacrarsi alla Fiorentina? "Sei matto? La squadra del cuore è quella, e quella deve rimanere!", si inalberano i tifosi. Del resto, se davvero il tifo dipendesse dalla città di residenza, non si spiegherebbero i tifosi juventini a Milano o quelli romanisti a Firenze.

Magari il tifo si trasmette di padre in figlio. "Siamo di famiglia laziale", chiariscono alcuni. Così come si è cattolici o comunisti per educazione: perché si sono ricevuti e assimilati quei valori e quella Weltanschauung dalla famiglia o dalla società. Strano paragone, però. Le convinzioni religiose, filosofiche e politiche hanno un fondamento razionale, possono essere giustificate con un'argomentazione dialettica. Possono quindi essere condivise e trasmesse, se la loro presentazione è convincente. Ma s'è mai visto un tifoso convincere un altro a cambiare squadra? Perfino il gusto artistico può essere giustificato, almeno in parte, in maniera razionale: chi ama Bach e Caravaggio sa anche spiegare perché trova quella musica e quella pittura "belle". Ma come può una squadra essere apprezzata per motivi estetici? Non certo perché gioca meglio delle altre. Tant'è vero che i tifosi non esitano a criticare senza pietà la propria beniamina quando fa schifo sul campo.

E allora? Allora non c'è uno straccio di motivo razionale per il tifo sportivo. Non la residenza in una città, non la composizione della squadra e neppure la qualità del gioco. Il tifo è un'attività umana banalmente assurda.

Non capisco. Per quest'assurdità ci sono esseri umani che soffrono, piangono e si disperano, si riducono sul lastrico, scendono in piazza, minacciano sommosse, si ammazzano l'un l'altro, perfino. Perché?

Shevek

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